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Saviano: “I giornalisti non devono essere l’ufficio stampa delle procure”

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“Quando sento parlare di regolamentazione dell’attività dei giornalisti avverto una particolare ansia, ma il racconto giornalistico non dev’essere lo strumento di una parte”. Da Perugia Roberto Saviano ha voluto replicare alle parole di Nicola Gratteri, che si era detto preoccupato dalla nuova legge sulla stampa. Nell’intervento di sabato al Festival del giornalismo di Perugia, nel panel intitolato “Le mafie in Europa dopo la pandemia”, il Procuratore di Catanzaro ha espresso forti critiche sul nuovo decreto legislativo 188 del 2021, entrato in vigore nel novembre dello scorso anno, che regola i rapporti tra la stampa e gli uffici del pubblico ministero, tutelando la presunzione d’innocenza degli indagati e vietando di fatto ai cronisti di divulgare notizie sull’attività investigativa.

Ma se Gratteri ha parlato di “involuzione della libertà di stampa” e di “legge che impedisce ai giornalisti di fare il proprio lavoro”, Saviano ha un punto di vista diverso. “La possibilità di raccontare i meccanismi mafiosi è parte necessaria del contrasto a questi fenomeni – afferma lo scrittore napoletano – ma i giornalisti non devono diventare uno strumento delle procure, ovvero di una parte in causa del procedimento. L’attenzione del giornalista deve essere sempre rivolta alla ricerca e alla tutela della verità, e questa non si protegge facendo coincidere l’attività giornalistica con quella della Procura, cioè dell’accusa”. L’autore di Gomorra però condivide alcuni dei timori espressi da Gratteri, sostenendo che la stessa ricerca della verità non si protegge impedendo ai cronisti di accedere alle informazioni e ai dati delle inchieste giudiziarie. “Bisogna essere attenti a non trasformare i giornalisti nell’ufficio stampa delle procure, e allo stesso tempo a non costringere i giornalisti a stare zitti e buoni”.

Roberto Saviano era al festival internazionale del giornalismo di Perugia per parlare di “Maxi“, il suo nuovo podcast che racconta del maxiprocesso a Cosa Nostra, a cavallo tra gli anni 80 e 90. Presentato nella serata di sabato al Teatro Morlacchi, in questo podcast (in esclusiva per Audible) Saviano analizza i punti salienti del maxiprocesso, che ha certificato per la prima volta l’esistenza di un’organizzazione criminale verticistica, governata dalla cosiddetta “cupola”. Sempre in quell’occasione emerse la figura del collaboratore di giustizia, ben rappresentata da Tommaso Buscetta, i cui celebri confronti con Totò Riina e Pippo Calò sono oggetto del racconto dello scrittore. I “pentiti” hanno contribuito in maniera decisiva a smontare dall’interno l’organizzazione, che subì un colpo durissimo dal quale non si è mai del tutto ripresa, lasciando il passo ad altre organizzazioni criminali dalla struttura più chiusa e familistica, come la ‘Ndrangheta e il clan dei Casalesi. “Prima del maxiprocesso l’esistenza della mafia era un tabù, il lavoro di Falcone e Borsellino e di tanti altri che hanno pagato con la vita la loro lotta al crimine ha permesso di fare luce sull’organizzazione criminale più potente del mondo, mettendola in ginocchio”.