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“Salute mentale? Non è ancora una priorità”: il parere della psicologa

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Paola Tagliani, psicologa-psicoterapeuta

“Parlare di salute mentale è già una forma di prevenzione”. La prima, ma non la più semplice, dato il tabù che ancora ruota intorno a questi argomenti. Paola Tagliani è psicologa-psicoterapeuta e si occupata di due fasce d’età solo apparentemente agli antipodi: i giovani adulti e gli anziani. Esercita come libera professionista, nel milanese, tra Magenta e Arluno, dividendosi tra il suo studio privato e le residenze per anziani. Sulla scia della nostra call to action dedicata alla salute mentale, le abbiamo chiesto com’è cambiato il suo lavoro in questi due anni di pandemia.

“La professione dello psicologo sta subendo trasformazioni repentine. Intanto, da un giorno all’altro, quando è iniziato il lockdown a marzo 2020, non ho potuto più accogliere i pazienti in studio. L’attenzione era concentrata sull’emergenza sanitaria, com’è ovvio, e la psicoterapia non è stata considerata come afferente alla sfera della salute. Io e i miei colleghi abbiamo dovuto modificare le modalità delle sedute e sperimentare l’online: per scelta, io faccio solo videochiamate, altri invece ricevono pure per telefono. In ogni caso, si perde una parte importante della relazione con l’altro, tanti elementi della comunicazione vengono meno: il turno di parola non è chiaro come dal vivo, e questo è un grosso limite, per una forma di cura che si basa sul dialogo. Lo stesso vale per la prossemica, gli sguardi, i gesti, soprattutto se la connessione internet salta o ci sono interferenze”.

Adattarsi a nuove modalità di cura ha riguardato sia voi psicologi sia i pazienti: com’è andata?

Non tutti hanno accettato la modalità video. Tanti utenti li ho persi per mesi, e ne ho rivisti solo alcuni quando è stato possibile fare di nuovo sedute in presenza. I motivi per cui le terapie sono state interrotte sono vari: le condizioni economiche che peggiorano, i ritmi di vita diversi, l’impossibilità di trovare il tempo materiale per le videochiamate, tra lo stress dello smart working, figli e genitori sempre in casa. La gestione degli spazi domestici, poi, è una questione da non sottovalutare: molte persone che non avevano un luogo tranquillo per le chiamate, facevano le sedute in automobile. Ma non è un setting adatto.

Quali nuovi problemi sono emersi?

Mi sarei aspettata un aumento dei casi di depressione e di umore altalenante. Invece sono cresciuti a dismisura i problemi di ansia: c’è preoccupazione, per il futuro ma non solo. La pandemia è stata il detonatore che ha fatto esplodere crisi già latenti, che sedimentavano da tempo. Seguo molti studenti che hanno difficoltà a proseguire i loro percorsi universitari perchè divorati dall’ansia o da metodi di studio che non funzionano più. Faticano a concentrarsi, anche a causa della socialità fortemente limitata, se non negata. Tra gli adulti la maggior parte soffrono di stress lavorativo e famigliare: smart working e didattica a distanza hanno reso le convivenze complicate, a volte insostenibili. E poi nelle coppie sono aumentati tantissimo gli scontri ideologico-valoriali sulla questione vaccinale, soprattutto quando si hanno figli piccoli da immunizzare: ripicche e malessere generalizzato che pesano sull’equilibrio del nucleo.

Che cosa ne pensa del bonus psicologo e della sua esclusione dalla Manovra del 2022?

Credo che abbiamo perso una grandissima opportunità. Quando si è iniziato a parlarne, mi sembrava quasi un miraggio e purtroppo sapevo che non potesse essere una misura sostenibile. Sarebbe stato un passo in avanti gigante dal punto di vista dell’attenzione politica al concetto di salute mentale e sono certa che la richiesta sarebbe stata altissima: ci sono molte persone che vengono da me per iniziare un percorso, ma poi rinunciano per motivi economici. La salute mentale è ancora un diritto a metà, non tutti possono permettersi le cure. Oltretutto, non è sempre necessario che le terapie durino anni: il bonus poteva essere un incentivo per tutti coloro che magari sono “titubanti” ad avvicinarsi alla psicologia, ma a cui basterebbero poche sedute per capire come prendersi cura di se stessi. Abbiamo perso un’occasione: sono state solo parole, quando c’è stata l’opportunità di agire non si è fatto niente.

Secondo lei, perché lo Stato ha deciso ancora una volta di non farsi carico della salute mentale dei cittadini?

C’è ancora scarso interesse per questo argomento. Siamo intrisi in un tipo di cultura che è fortemente medica, basata sul concetto “mente-cervello”, per cui è fondamentale curare il corpo, l’aspetto psicologico viene dopo. Le faccio un esempio: se io ho male alla spalla, vado dal fisioterapista che mi prescrive una serie di sedute per risolvere il problema. Semplice e socialmente accettato. Se invece ho un momento negativo della vita, con conseguente difficoltà nel gestire l’ansia, magari successiva a un licenziamento, la vulgata comune è “aspettare che passi”. Per superare questi limiti ci vorrà ancora del tempo, soprattutto per chi si trova in quella fascia d’età compresa tra i 40 e i 60 anni, dove il disinteresse e il timore di parlare di salute mentale sono ancora così radicati. Tra i giovani, invece, c’è maggiore attenzione. E la pandemia, in questo, è stata un propulsore.