Una giornalista, la guerra, il carcere

“La guerra non finisce quando si smette di sparare, così come la pena non termina una volta usciti dal carcere”. È stato questo il passaggio preferito da un detenuto dell’intervento della giornalista Francesca Mannocchi. Al carcere Lorusso e Cutugno di Torino, la reporter ha raccontato, durante l’incontro organizzato da Biennale Democrazia, le sfaccettature della guerra in Ucraina e, allargando lo sguardo, dei conflitti sparsi nel mondo. Lucida e con un filo d’emozione. Questo perché davanti ha avuto una platea d’eccezione: cento detenuti che hanno intrapreso un percorso di studi. Ognuno con le sue origini e i suoi trascorsi, tutti ascoltatori attenti e composti per l’occasione.

Sono 1.300 le persone detenute nella casa circondariale, una struttura divisa in giganteschi padiglioni. Un po’ più distante c’è l’edificio F, quello femminile, in cui risiedono 150 donne. Entrando dal primo, dopo un labirinto di porte, si raggiunge il teatro dove si svolge il faccia a faccia fra Francesca Mannocchi e i cento detenuti. Lei al centro, illuminata da sbiadite luci blu; loro schierati in una fila di sedie che si srotola per tutta la sala.

Solo dagli occhi si legge la fame di curiosità dei detenuti. Hanno background formativi fra i più diversi: dagli studi superiori di arte e negli istituti Giulio e Plana, fino ad arrivare ai corsi universitari – scienze politiche, giurisprudenza e scienze motorie – del Polo Universitario. Corsi per capire il mondo al di fuori delle celle, corsi per far viaggiare la mente e arricchire l’animo. 

Durante l’incontro, sono affiorate tante analogie fra carcere e guerra. Attenzione altissima dei partecipanti, tutti con lo sguardo rapito dalle esperienze di Mannocchi. Il motivo alla base è presto detto: “Quando si varca la soglia del carcere, come quando si parte per una guerra – dice la giornalista – i codici cambiano”. Attimi che portano con sé la creazione di una situazione di cattività. Per questo, è bene “non guardare al passato, ormai immutabile e non dobbiamo pensare al futuro, troppo lontano – mette in conto Mannocchi nella sua analisi – Viviamo in un eterno presente che comporta una sospensione del tempo”. 

Il respiro di Mannocchi si fa più rilassato. È una condizione che ha vissuto sulla sua pelle nei tanti scenari di guerra che ha seguito: Libia, Siria, Iraq, Afghanistan e ora in Ucraina. Conflitti che vanno trasmessi a chi la guerra non l’ha mai vissuta. Con dettagli ridisegnati attraverso parole asciutte e puntuali.

“La nostra cassetta degli attrezzi” grazie a cui “anche chi non ha mai sentito il rumore di una bomba, possa immaginarselo con il racconto di dover scappare dalla propria casa scegliendo un solo oggetto da portare via con sé”. Da qui, la lectio magistralis di Mannocchi prende la piega del confronto con i detenuti, esortati a parlare dei loro vissuti: “E voi, come raccontereste il carcere a chi è fuori, al di là del confine e non l’ha mai vissuto?”.

Secondo la giornalista, le parole bastano persino per raccontare la sensazione di perdersi, in guerra come in carcere. E se è la prima volta di Mannocchi in carcere in Italia, non lo è in assoluto. In tutto il mondo, nelle prigioni che ha visitato, ha visto la rabbia moltiplicarsi. “Raccontarla con le parole è un modo per disinnescarla”, ha spiegato agli ascoltatori, silenziosi e attenti. 

Le opinioni sono tante e vogliono essere espresse. Con il preambolo iniziale, il professore dell’Università di Torino, Franco Prina, ha rivendicato “il diritto allo studio anche per queste persone che vivono in istituti dove la libertà viene temporaneamente limitata”. C’è poi Lucia Santamaria, educatrice, che condivide un pezzo della vita dentro il carcere: racconta che i detenuti passano la maggior parte del loro tempo libero a informarsi. 

Partono le domande. Non c’è timidezza: le mani alzate verso il soffitto quasi si accavallano. Una donna chiede “Chi fa informazione può regolare il volume del mondo?”. La risposta è chirurgica: “Sì, è importante anche scegliere a chi dare voce. Come nel racconto del fenomeno migratorio, bisogna creare le condizioni di un arrivo sicuro, garantendo il diritto internazionale alla mobilità”. Un signore dalla seconda fila: “Perché con questa guerra sembra che ci siano vittime di guerra che valgono di più?”. Mannocchi risponde sicura: “Non possiamo cambiare ciò che è stato, l’impunità dei responsabili di tanti conflitti. Ma possiamo prendere atto che la Corte penale internazionale ha emesso un mandato nei confronti di Putin”.

Un gesto simbolico, ma fondamentale nella logica dei tempi lunghi del diritto internazionale. E tutti gli altri? La guerra in Iraq? Bashar al-Assad in Siria? Sono rimasti tutti impuniti. “E la scelleratezza di queste impunità sta generando vendetta – ha spiegato la giornalista – se lasciassimo impunito anche Putin stabiliremmo che l’uso della forza vince sullo stato nazionale, sui confini e sull’identità dei popoli”. 

Il microfono arriva in quarta fila: “Siamo arrivati alla terza guerra mondiale? Quando durerà questa guerra?”. La previsione di Mannocchi non è scontata: “Secondo me siamo nel terzo conflitto mondiale e questa guerra durerà molto tempo. La guerra non si chiude con la firma di un trattato, ma va avanti anche successivamente”.

E se la guerra in Ucraina qualcosa di buono ce l’ha mostrato è che l’Europa ha le risorse per accogliere chi fugge dai conflitti. Sono stati sette milioni gli sfollati arrivati dal paese, molti di più delle persone che arrivano via mare. La giornalista ha sottolineato la necessità di “vedere le cose nell’insieme”, affrontare il fenomeno migratorio guardando verso il futuro. Proprio facendo ciò che in cattività non si può fare. Non dimenticarsi delle situazioni, delle guerre, come è successo per la Siria, e delle persone che salgono sui barconi: “Anche qui tra voi, nessuno avrebbe fatto un gesto stupido, se il prima non fosse stato peggio di ora”.