La testata del Master in Giornalismo “Giorgio Bocca” di Torino

“Tutto cominciò dalla delusione”. Intervista a Giovanni Minerba

condividi

«Ottavio, fatteli tu i film se quelli che ci sono non ti piacciono». Così, dopo ogni sera passata al cinema, Giovanni Minerba rispondeva alla faccia scura del compagno Ottavio Mai, che non sopportava i caratteri stereotipati che venivano dati ai personaggi omosessuali nei film.
«Non ci sentivamo rappresentati dai film che vedevamo», racconta Minerba. «Una sera, dopo aver visto Le occasioni di Rosa di Piscicelli, ennesimo film stereotipato, ho ripetuto quella frase ad Ottavio, che era sempre più arrabbiato di me».
Il giorno dopo, Mai e Minerba compravano la loro prima telecamera e dopo qualche mese cominciavano a girare il loro primo film. Era il 1982 quando usciva Dalla vita di Piero.
«Prima di incontrare Ottavio io facevo il macellaio e lui aveva seguito solo qualche corso di cinema all’università, non eravamo esperti. – continua Minerba – Nel film, abbiamo parlato di quello che conoscevamo, abbiamo raccontato la nostra storia fino a quel momento».
Piero, in effetti, è proprio Giovanni Minerba. Ragazzo del sud trasferitosi a Torino con fidanzata al seguito e l’idea di sposarsi, ma con le pulsioni da un’altra parte. «Io, purtroppo, mi sono sposato e solo dopo ho capito, – spiega – Piero, invece, lo capisce appena prima».
Con il loro primo film, Ottavio e Giovanni girano l’Italia e l’Europa tra le piccole rassegne tematiche che iniziavano a sorgere, perché in Europa un festival del cinema Lgbtq+ ancora non c’era. Ecco perché, a Torino nel 1986, per iniziativa di Mai e Minerba e con il consenso della Regione Piemonte, nasce il festival cinematografico a tematiche Lgbtq+ Da Sodoma ad Hollywood, poi diventato Lovers Film Festival, oggi giunto alla sua 35esima edizione.
«Il nostro è stato il primo in Europa e il terzo nel mondo, dopo San Francisco e Los Angeles – ricorda il fondatore del festival – ed è stato subito ben accolto dalla città. I torinesi sono venuti fin dalla prima edizione. Anche la critica l’ha apprezzato, a partire dal critico Gianni Rondolino, inizialmente dubbioso ma che capì subito lo spirito con cui il festival era nato. Non era soltanto una rassegna di film a tematica Lgbtq+, ma un festival caratterizzato da una selezione ben precisa di film di qualità».
In 35 anni, il festival è cambiato ed è cresciuto, fino a diventare uno dei più importanti a livello internazionale. Con lui sono cresciuti Giovanni e Ottavio, scomparso prematuramente nel 1992, Torino e tutto il cinema a tematica Lgbtq+: «Se prima, in giro per il mondo, si producevano 30 film a tematica, oggi se ne producono tremila», spiega Minerba. «Quindi, certamente, con il passare del tempo abbiamo sempre avuto più possibilità di scelta. Prima, senza internet, era anche più difficile venire a conoscenza di un film».
Il festival è cambiato anche in relazione al contesto storico in cui, man mano, si immergeva: «Durante i primi anni c’era un discorso forte di attivismo, poi è arrivato il periodo molto difficile dell’aids. Non era semplice rapportarsi a queste tematiche, autori e produttori avevano paura, e non si creava più come prima. Poi, è ricominciato di nuovo tutto con una grandissima produzione. Ad un certo punto sembrava quasi che andasse di moda fare un film sui gay, spesso a discapito della qualità».
Dall’edizione di quest’anno, Vladimir Luxuria prenderà il posto di Irene Dionisio come direttrice del LoversFF ma, pare, non potrà collaborare con l’amico Minerba. Il Comitato di gestione del Museo del Cinema, che dal 2005 amministra il festival, ha infatti deciso di interrompere il contratto di collaborazione che da tre anni permetteva al padre del Lovers di rimanere all’interno dell’organizzazione dopo che, nel 2017, era stato estromesso dalla direzione. Il nuovo direttore del Museo del Cinema Enzo Ghigo si è detto d’accordo con la decisione presa, e ha chiesto che Giovanni Minerba, se vuole lavorare ancora, lo potrà fare gratuitamente. «Ghigo ha espresso il suo parere – risponde Minerba – ma io non ho certo fatto la fortuna con il festival e non prendo 10mila euro al mese di pensione come lui. Il punto non sono soldi, ma va detto che la prassi vuole che, se una persona lavora, venga pagata per farlo. Aspetto di capire cosa succederà, ma indipendentemente da questo discorso, io spero di fare parte del festival anche quest’anno».

Articolo tratto dal magazine di Futura uscito il 22 gennaio 2020. Leggi il pdf qui.

MARTINA STEFANONI