Storie di resistenza ad alta quota: il nuovo progetto del “fotografo dei lupi”

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Giorni e notti in cammino nei boschi selvaggi sul confine tra Piemonte e Liguria, dove l’intervento dell’uomo tace e i sentieri si confondono all’infittirsi degli alberi. Lo zaino in spalla carico di attrezzatura: una tenda, del cibo, la macchina fotografica. Da più di vent’anni Paolo Rossi vive così. Ama farsi chiamare “The wolves photographer” perché la sua esperienza di fotografo e documentarista di specie selvatiche è iniziata dai lupi. Da qualche mese indaga la relazione tra chi abita i boschi per natura e chi li ha devastati senza diritto: cerca storie di resistenza ad alta quota, dove l’aria tersa avvicina ai perché delle cose.

Sulle tracce degli animali

Nato a Genova 37 anni fa, cresciuto in Val Trebbia, Paolo ha frequentato l’istituto agrario di Sant’Ilario, il paesino che canta Fabrizio De André in Bocca di rosa. “Mi sono diplomato con una tesina sul ritorno del lupo in Appennino, che colpì molto i professori perché all’epoca nessuno ne sapeva nulla”, racconta. “L’Università non faceva per me, troppa teoria. L’ho lasciata per dedicarmi a impieghi part-time che mi permettessero di andare più spesso nei boschi”. I suoi primi lavori – pubblicati in diversi libri e raccontati da un servizio della BBC – puntavano a testimoniare la presenza del lupo in queste zone straordinarie ma poco esplorate. “Perché in Piemonte non ci sono solo le Alpi, ma c’è anche l’Appennino ligure, la Val Borbera nella provincia di Alessandria. Territori ricchissimi a livello di biodiversità floristica e faunistica”.

Il nuovo progetto

È qui che Paolo Rossi e Nicola Rebora, amico e collaboratore da 15 anni, lavorano da mesi per realizzare il loro quarto cortometraggio, che uscirà a luglio con il titolo Sopravvissuti all’homo sapiens. Una storia di resistenza selvatica: al centro del film saranno volpi, donnole, tassi, faine, e tutte le specie che sono sopravvissute all’antropizzazione massiccia di queste montagne, un tempo densamente popolate. L’idea è nata circa un anno fa, durante la preparazione del documentario Felis – gatto sarvægo, con protagonisti i gatti selvatici, animali affascinanti che “nessuno credeva di trovare più in queste zone”.

“Lavorare su appostamento significa trascorrere moltissimo tempo in attesa”, spiega Paolo. “Posizioniamo tre o quattro video-trappole in un raggio di circa 10 chilometri quadrati, che monitoriamo ogni 20 giorni. Ci spostiamo da una trappola all’altra a piedi, e camminando ci imbattiamo in molte specie diverse. Abbiamo iniziato a chiederci perché alcune hanno resistito alla presenza umana mentre altre, come le linci, si sono ridotte a pochi esemplari o addirittura sono scomparse per 150 anni, come i lupi”. A queste domande prova a rispondere il nuovo cortometraggio, che sarà realizzato con un budget ridotto, grazie ai fondi raccolti sulla piattaforma produzionidalbasso.com, dove le donazioni sono aperte ancora per due mesi.

Il metodo di ricerca di Paolo e Nicola richiede pazienza e spirito analitico. “Molti pensano che basti posizionare le video-trappole e tornare dopo qualche settimana a osservare il miracolo. Ma non è così. Bisogna conoscere a fondo il territorio per adattare i congegni nel modo più efficiente. Per esempio, è necessario sapere che gatti selvatici e martore li si può incontrare facilmente in un bosco di noccioli, dove vivono molti scoiattoli e ghiri, loro possibili prede”.

La preparazione è fondamentale, insieme ad un profondo rispetto per flora e fauna. “Non usiamo nessun tipo di attrattivi per avvicinare gli animali alle video-trappole. Cerchiamo solo di ragionare come ragionerebbero loro, e non sempre riusciamo a immedesimarci”. Il materiale raccolto in questi mesi di appostamenti sarà condensato in un documentario breve, di circa 20 minuti: “Mi piace paragonare il mio lavoro sulle immagini a quello di uno scultore di legno. Cesellare per raggiungere l’essenziale, e tentare di veicolare un messaggio forte, che arrivi dritto alla testa e al cuore di tutti”.