Più infrastrutture d’accumulo, contrasto alle perdite, usi parsimoniosi della risorsa idrica e aumento della sua disponibilità alternativa. Sono questi gli interventi urgenti da attuare per fronteggiare la siccità e la progressiva scarsità idrica in Italia. Parola di Mauro Grassi, direttore della Fondazione Earth Water Agenda, redattore del report “Water Economy in Italy” insieme al presidente della stessa Fondazione, Erasmo d’Angelis.
Presentato lo scorso 21 marzo a Palazzo Giustiniani in Senato, è il primo rapporto Proger sullo stato dell’acqua e delle infrastrutture italiane. All’interno ci sono “soluzioni strutturali, a lungo termine a cadenza decennale e ventennale – spiega Grassi – visto che non possiamo più gestire con logica emergenziale”. Anche perché in gioco ci sono i fondi Pnrr: 4 miliardi di euro in tutto, anche se “è una cifra lontana dalla reale necessità – mette in chiaro Grassi -. Come Fondazione abbiamo proposto al governo di far leva su 55 miliardi di euro nell’arco di dieci anni, di cui 35 miliardi provenienti da fondi pubblici e la restante parte dai privati”.
Partiamo dalle infrastrutture d’accumulo. Qual è il percorso da intraprendere?
“Servono nuovi invasi e dighe. Per quanto rifuarda i primi, storicamente il Piemonte non dispone di un gran quantitativo, ma compensava bene con le piogge. Dal momento in cui non piove da molto tempo, è più che mai fondamentale conservare l’acqua fino alla stagione più secca. L’Italia ha una disponibilità complessiva di oltre 8 miliardi di metri cubi d’acqua nelle grandi dighe. Ebbene, riconosco l’inibizione italiana a parlarne legata alla strage del Vajont, ma gli altri Paesi europei se ne sono dotati e le sfruttano a dovere. Bisogna stare al passo con loro con atteggiamento qualificato e sostenibile a livello ambientale”.
Ci sono anche altre policy?
“Due, ovvero il riempimento delle falde, come ha fatto la Toscana con la sperimentazione di un impianto di ricarica in Val di Cornia (a Forni, nel comune di Suvereto, ndr), e il disinterramento delle attuali dighe. È una tecnica molto costosa e ostacolata dalla legislazione nazionale, ma a oggi si contano 4 miliardi di metri cubi d’acqua interrata. Un quantitativo mostruoso se consideriamo che ogni anno vengono prodotti 9 miliardi di metri cubi d’acqua utilizzabili, 5 e mezzo dei quali consumati per le attività civili, mentre il resto si perde nei tubi”.
Sulla questione dissalatori, com’è messa l’Italia?
“Sono usati in minima parte se confrontiamo l’esperienza di desalinizzazione italiana a quelle di Spagna, Israele, Abu Dhabi e Australia. Grandi quanto una struttura industriale, i dissalatori necessitano di uno sbocco al mare o, quantomeno, di foci dei fiumi – e questo sarebbe l’ipotetico caso piemontese -. Inoltre, sono molto energivori e generano la salamoia, una miscela d’acqua iper salata che se gettata in mare, può causare molti danni”.
Veniamo poi ad altri due punti cruciali riguardo la gestione idrica, la riduzione delle perdite e l’uso delle acque reflue.
“In Italia spendiamo ogni anno 2 miliardi e mezzo di euro sul miglioramento e la sostituzione di tubi e depuratori. Per un avanzamento veramente adeguato e al passo coi tempi, ne servirebbero almeno il doppio. Per tutelare la risorsa in toto, appunto serve anche l’acqua reflua: finora si stimano 9 miliardi di metri cubi, ma ne consumiamo poca per via delle resistenze del mondo agricolo. Naturalmente per quella buttata nei fiumi, sarebbero essenziali maggiori bonifiche”.
Come si salvaguarda l’acqua quando il mondo agricolo ne ha disperatamente bisogno?
“Puntando su metodologie e tecniche d’irrigazione di precisione, nonché allo spostamento delle colture che richiedono ingenti quantità d’acqua come mais o kiwi. Quando il territorio non è più adatto, vive problemi ricorrenti e risponde negativamente al susseguirsi della siccità, è bene cambiare e adattarsi. Comprendo però l’agricoltore che guarda al profitto e non intende mutare le sue abitudini produttive”.
Comunque, il Piemonte sta osservando da vicino il modello d’irrigazione a goccia israeliano.
“Sicuramente è una tecnologia che permette di risparmiare acqua. Bisogna però capire quanto è profittevole installare queste strutture e se l’agricoltore che intende farlo debba essere aiutato o meno con incentivi economici. Al fianco della tecnologia è bene ricordare che influisce anche l’economia”.
In questo senso, l’idroelettrico è in grande affanno, giusto?
“Il settore ha perso 5 miliardi di euro l’anno scorso. Le pale non hanno mulinato abbastanza per la carenza d’acqua, comportando una perdita del 30% di megawat e quindi di valore del prodotto finale. Ma a questo proposito quel che è più rilevante è che tutto ciò che è stato perso, non è stato ribilanciato dall’incremento dell’energia alternativa. Anche per questo, abbiamo consumato un maggior tasso di combustibili fossili (petrolio, carbone e gas)”.
Risaliamo anche alle cause di questa situazione. Si sta profilando il secondo anno di siccità di seguito?
“È un rischio che si sta concretizzando e, se andrà così, sarebbe la prima volta. L’anno scorso l’Italia ha contato danni all’agricoltura e l’idroelettrico per 11 miliardi e mezzo d’euro, ma le falde e i pozzi profondi hanno più o meno attutito l’ondata di siccità. Quando però la siccità si ripete, la pressione alle fonti, ormai ridotte all’osso, potrebbero provocare una situazione eccezionale. Va comunque evidenziato che l’Italia è un paese di pioggia con una media di precipitazioni notevolmente superiore rispetto agli altri paesi europei”.
Come mai ci troviamo in queste condizioni?
“La pioggia cade mediamente in sufficienza, ma con le variabilità tipiche del clima mediterraneo. Senza tralasciare gli effetti del cambiamento climatico in corso. Ciò si palesa guardando agli ultimi anni, in cui si passa da un 2010 dove precipitarono quasi 400 miliardi di metri cubi a un 2022 che ha segnato appena 210 miliardi di metri cubi”.
Cosa ne pensa del prossimo commissariamento straordinario sul tema irriguo?
“Come Fondazione da anni chiediamo un commissariamento con sede a Roma da mettere nelle condizioni di fare politiche adatte. È necessario un solo centro di coordinamento fra gli innumerevoli soggetti coinvolti. L’ideale sarebbe una sorta di ‘guardiano dell’acqua’ che dialoghi soprattutto con i presidenti di Regione quali commissari per l’installazione delle opere”.