La voce degli studenti fa da contro canto alla campanella che non suona più. Ragazzi e ragazze commentano la didattica a distanza, perché da venerdì quasi tutti sono tornati a seguire lezione dalle scrivanie di casa. Gli studenti hanno lasciato i loro banchi all’ora di pranzo, non sapendo se vi sarebbero tornati la settimana successiva. Alla scuola secondaria Calvino di Torino, nell’incertezza, gli studenti si fermavano a chiacchierare più a lungo all’uscita, per salutare i compagni.
“Sicuramente mi mancherà andare a scuola e vedere i miei amici. – aveva detto una di loro – Ma penso che siamo in una situazione di emergenza e chiudere non è così sbagliato. Sicuramente in presenza riusciamo a seguire di più perché avere i professori davanti è meglio, ma anche in Dad ce la caviamo”.
La chiusura non trova certamente impreparati ragazzi e insegnati: “In questo momento non sappiamo ancora, ma ci atterremo alle indicazioni – affermava un’insegnante dell’istituto – . I nostri studenti hanno già avuto l’anno scorso la stessa esperienza e crediamo che siano già attrezzati, quantomeno sul piano tecnico. È chiaro che le classi sono varie e complesse, ma la gran parte dei ragazzi ha un livello socioeconomico che gli permette di far fronte alla difficoltà di questo momento. In più la nostra scuola aiuta molto le famiglie e i ragazzini in difficoltà”.
Scampato pericolo, almeno per il momento, per le scuole primarie, per cui genitori e insegnanti temevano maggiormente la chiusura.
“Stiamo tutti sperando che lunedì sia aperta la scuola – commentava una maestra – anche perché non abbiamo mai avuto bambini con il Covid, in qualche caso il contagio ha interessato solo i genitori. Per i piccoli fare didattica a distanza si era già rivelato un disastro e rifarlo lo sarebbe di nuovo. Per me sarebbe problematico anche per le medie e le superiori, perché i docenti non riescono a insegnare quello che vorrebbero e gli studenti non apprendono come in classe. Manca anche l’aspetto della socialità con gli altri i ragazzi: molti di loro hanno riscontrato dei problemi psicologici dopo il primo lockdown”.
Ma Torino, con quasi 250 casi su 100 mila abitanti, non è abbastanza sicura. Lunedì 8 marzo tutti gli studenti dalla seconda media in su sono rimasti a casa, o quasi. Decine di loro, infatti, hanno deciso di scendere in piazza e di rimanerci, dicono, fino a una nuova riapertura. Questa è attualmente prevista tra meno di due settimane, ma a complicare le cose vi è la possibilità che dal 15 marzo Torino si unisca agli altri comuni piemontesi già in zona rossa.
L’incontro in piazza è stato organizzato dal movimento Rinascimento Studentesco. “Terza ed ennesima volta che le scuole vengono chiuse e si pensa addirittura a una quarta. È scandaloso che le istituzioni, regione in primis, dicano ogni volta che faranno di tutto perché sia l’ultima. È una presa in giro”, scrivono i promotori della mobilitazione.
Seduti a distanza l’uno dall’altro, ma abbastanza vicini da poter chiacchierare nelle pause, i ragazzi indossano gli auricolari e seguono le lezioni dal tablet o dal computer portatile. “La protesta nasce non tanto per discutere le chiusure in sé, – racconta una studentessa – ma per lamentarci del fatto che le discussioni che erano state fatte negli scorsi mesi, come quelle sui trasporti, non abbiano portato a decisioni efficienti. E adesso ci si ritrova senza un piano che consenta di ripartire in sicurezza”.
Anche alcuni insegnati si presentano in piazza accanto i propri alunni, per appoggiarne le rivendicazioni: “La scuola dovrebbe essere l’ultima a chiudere, appena prima degli ospedali. Si tratta di un servizio pubblico essenziale, che è stato sacrificato con molta leggerezza e miopia. Io per esempio ho una seconda media e credo che questa classe sia stata la più penalizzata: non hanno vissuto il passaggio dalla scuola elementare e adesso dovrebbero affrontare una terza. Io non sono stata in grado di dare loro il bagaglio necessario per affrontarla, pur lavorando giorno e notte. Sono qui anche per gli alunni che non ci sono, molti di loro sono chiusi nelle loro stanze, non vogliono più uscire. Bisogna però immaginare questa piazza piena, con tutti i ragazzi che oggi non ci possono essere. Io sono qui per loro”.