Invitata come relatrice al convegno “Politiche e cultura di genere negli Atenei italiani”, la sociologa Chiara Saraceno è stata contestata dal collettivo femminista “Mai più zitt3”, accusata di far parte del sistema, di un’università maschilista e sessista. Saraceno, che durante la sua vita ha combattuto numerose battaglie femministe – a partire da quella per il divorzio – ha rigettato le accuse, difendendo la propria storia, riconoscendo però che le manifestanti hanno ascoltato la sua lezione e c’è stato una sorta di punto di incontro. Ed è da quel punto di incontro che Saraceno pensa bisognerebbe ripartire, come spiega in un’analisi sulla diffusione di questi movimenti, intervistata da Futura.
Negli ultimi mesi le manifestazioni di protesta da parte di movimenti studenteschi o giovanili si sono intensificate. Si pensi per esempio alla forza delle dimostrazioni dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin o alle proteste contro l’operato di Israele contro la popolazione palestinese della striscia di Gaza, con annessi scontri con la polizia e manganellate. Perchè succede, a suo giudizio?
“Le motivazioni sono tante. Il fatto che i più giovani, non solo gli studenti, in qualche modo vogliono prendere parola, dire la loro su come va il mondo e come dovrebbe andare, mi sembra solo positivo. Ogni tanto ci si lamenta che non si interessano, non fanno, non leggono. Poi ogni generazione lo dice di quelle dopo. Sono minoranze, ma sono sempre state minoranze quelli che si mobilitano. Anzi, per certi versi c’è stata questa forte interruzione con il Covid, prima del quale c’erano state le mobilitazioni di tipo ambientalista, con i Fridays for future. Dopo sembrava che non ci fosse più nulla, salvo le azioni di Ultima generazione che tuttavia rimangono molto circoscritte. Benché le motivazioni che fanno scendere in piazza e mobilitarsi siano sempre vicende negative – la violenza contro le donne, la guerra di Gaza un po’ l’Ucraina – sono molto selettive: ciò che è successo in Afghanistan non ha avuto un’altrettanta forza mobilitante ad esempio e anche le proteste delle donne iraniane non hanno ricevuto che poco più di gesti di solidarietà simbolica. Deve scattare qualche elemento di identificazione. È stato il caso di Giulia Cecchettin – perché altre violenze sulle donne non hanno provocato altrettanta identificazione: era un caso in cui si poteva dire “una di noi” e anche un ragazzo, un giovane uomo poteva dirlo del suo uccisore. E anche le parole di sua sorella o del padre hanno molto contribuito a una narrazione pubblica di quell’evento, che non c’è stata in altri casi altrettanto drammatici. Anche nel caso della guerra di Gaza, la vicinanza fisica e il fatto che Israele abbia reagito in modo spropositato alla aggressione di Hamas smentendo il proprio carattere di paese civile e democratico ha consentito una identificazione con le vittime che paradossalmente viene meno facile nei confronti di chi vive sotto regimi oppressivo”.
Le posizioni dei movimenti più “visibili” sono spesso radicali. Lo sono più che in passato?
“La radicalità fa parte del movimento, dell’uscita. Anche i movimenti ambientalisti, come Ultima generazione, se non fossero un po’ radicali, probabilmente non mobiliterebbero così. Poi ci sono tante cose apparentemente meno radicali. C’è stata l’altro giorno – il 18 marzo – una manifestazione per le vittime di mafia che non ha avuto grande eco sulla stampa ed erano molto più persone. Ma non ci sono stati disordini, e se ne è parlato meno. Che faccia più notizia il fatto che sia stata contestata Chiara Saraceno, rispetto alle migliaia di persone in piazza contro la mafia, dà la misura di un certo squilibrio nell’attenzione e nella rilevanza dei fatti.
Detto questo, un po’ di radicalismo ci vuole. Ogni tanto mi soffermo a pensare: come eravamo noi sessantottini? Anche là eravamo anche un po’ aggressivi. Però forse con un po’ più di senso della storia. Per noi era chiaro che qualcuno prima di noi aveva fatto la Resistenza, poi li criticavamo perché l’avevano tradita. O dicevamo che il Partito comunista o la sinistra non facevano abbastanza”.
Oggi cosa è cambiato?
“Nei movimenti di adesso colgo una tendenza a fare tabula rasa. Come se non ci fosse stato nulla prima. Si inventa da capo. Ecco, magari sto semplificando, ma questo mi colpisce. Il fatto che sia difficile il dialogo tra generazioni è possibile, lo accetto. Voglio dire, io non sono mai stata comunista, ma le mie amiche femministe comuniste criticavano Adriana Seroni. Lo sapevano che c’era stato un qualcosa, che poi non aveva raggiunto quello che loro speravano. Però si collocavano pubblicamente in una storia. E anche il movimento studentesco si collocava in una storia che vedeva criticamente, ma non negava. Adesso è come se ci fosse stata un’interruzione storica, non c’è stato nulla prima”.
Vale anche per l’episodio che l’ha vista contestata da alcune manifestanti?
“Lì per lì, sono rimasta un po’ anche offesa, per essere stata definita complice del patriarcato e del maschilismo Perché io nella mia vita ho pagato tanti prezzi per non esserlo ed esserne improvvisamente accusata mi ha colpito. Ma poi, ripensandoci, mi ha colpito ancora di più, nel parlare di ‘università maschia’, l’assoluta ignoranza o indifferenza di tutto ciò che dentro l’università è stato fatto negli ultimi vent’anni. Compresa l’Università di Torino, che ha una storia forse più ricca di altre università in questo senso.
Parzialissima, non dico di no. Ma per esempio il Cirsde – il Centro interdisciplinare di ricerche e studi delle donne e di genere – ha avuto una grande importanza ed è riuscito a diventare un’istituzione, che forse a loro non piace. Non si può dire che non esista del tutto la prospettiva di genere in molte materie, perché nelle discipline tante persone hanno lavorato in questa direzione. Questo lavorio lo si può criticare, si può dire che non è abbastanza, si può dire che si è fermato, ma non che è tutto come prima. Perché vuol dire di fatto negare una storia, anche complicata, dura, conflittuale. Quando io sono arrivata a Torino da Trento, era appena stata negata dal Senato accademico l’istituzione del Cirsde, nonostante non richiedesse risorse extra, in quanto centro interdipartimentale. Dissero di no perché, secondo loro, gli studi delle e sulle donne e di genere ‘non erano una cosa seria’. Faticosamente lo abbiamo rimesso in moto quando sono arrivata io, che ho dato una mano perché finalmente ero ordinaria e quindi avevo anche un po’ più potere di negoziazione. E alla fine siamo riusciti a farlo approvare. Non sono cose che non sono avvenute, che non ci sono state, così come l’introduzione della carriera alias o la figura della consigliera di fiducia, ben prima delle mobilitazioni contro la violenza sulle donne e le molestie”.
In generale, c’è una tendenza a dividere tutto in bianco e nero: come si può andare oltre a questa dinamica?
“Si dovrebbe cominciare ad ascoltarsi un po’ di più. Lasciar parlare, lasciar ascoltare, mettersi nei panni dell’altro, che non vuol dire difendere quello che sta facendo Netanyahu, per esempio, ma appunto non assimilare tutto Israele a quello che sta facendo Netanyahu e tutti gli ebrei a quello che sta facendo Israele. Così come si rischia a un certo punto di fare lo stesso errore di Netanyahu, ovvero di dire che Hamas e i palestinesi sono la stessa cosa. O torniamo a imparare a discutere senza affidarci immediatamente delle etichette, oppure…”
Questa dinamica va anche oltre allo scontro generazionale.
“Certo, il semplicismo di cui parlavo non riguarda solo lo scontro generazionale. Guardi cosa sta succedendo sui giornali, nei talk show gli insulti reciproci”.
Ci sono degli aspetti che la stupiscono invece in positivo di questi movimenti?
“Il fatto che ci sia un’attenzione, una mobilitazione su fenomeni di rilevanza collettiva Mi preoccupa che lo si faccia con semplificazioni e irrigidimenti eccessivi. Con ciò, ci sta anche il momento dello scontro, per farsi ascoltare. La prima cosa che ho detto quel giorno – della contestazione – è che probabilmente quell’evento organizzato dal Rettorato, che io trovavo positivo che avessero organizzato (altrimenti non avrei accettato di andarci), non ci sarebbe stato se non ci fosse stata la protesta prima. A un certo punto è brutto dirlo, ma se uno non grida un po’ forse non viene ascoltato. Però poi dopo? Non puoi dire io con te non negozio, voglio che ti trasformi, però non ti puoi trasformare perché sei cattivo nell’origine. Perché questo è quello che poi veniva fuori anche da quel documento, dentro quelle tante cose condivisibili, tant’è vero che loro poi hanno detto che condividevano quello che avevo detto io. Però non puoi partire dal fatto che dato che questa è un’istituzione brutta, cattiva, maschia e anche sanguinaria (perché ci hanno messo dentro anche la Palestina) allora è irriformabile. Però si deve riformare. Così si nega quel poco che è stato fatto e si nega la possibilità stessa di confrontarsi. Mi va bene che siano venute con il loro documento, poi dopo quel momento lì, non magari quel giorno, ma dopo ci deve essere un momento in cui arrivi con le tue richieste. Ti siedi, ascolti, vedi cosa ti rispondono, vedi cosa funziona in quello che ti rispondono e cosa no, vedi se alle promesse fa seguito qualche cosa e così via. E devi continuamente monitorare, sicuramente, non sederti mai”.
Diceva appunto che la radicalità è utile, serve. Ma in un momento storico in cui c’è sempre questa divisione in bianco e nero, la radicalità può anche però allontanare dalla partecipazione?
“Sì, se la radicalità diventa impossibilità di vedere la complessità. Un conto è fare domande radicali nel senso di fondo, un conto è radicalità come semplificazione estrema. Quella non è particolarmente utile. Quello che mi sembra di non vedere è la complessità e l’articolazione dei problemi anche delle diversificazioni interne. Come dire: io scelgo una parte e tutto il resto non lo vedo. Penso sia anche un problema che questo movimento transfemminista non abbia nessuna interlocuzione col Cirsde. Si può benissimo dire che non basta. Ma interloquire per dire ‘ma perché non affrontiamo anche questo argomento?’, è necessario. Altrimenti, se smantelli anche le istituzioni che in qualche modo provano a fare qualcosa, finisci per delegittimarle. Vuoi farlo? Allora argomenta perché le vuoi delegittimare”.