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Primavera Araba, dieci anni dopo: cosa è rimasto?

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Tutto è iniziato il 17 dicembre 2010 a Sidi Bouzid, cittadina rurale della Tunisia, nota per la corruzione degli agenti della polizia locale e l’alto tasso di disoccupazione. Qui, il 26enne Mohamed Bouazizi lavorava come venditore ambulante. Dopo l’ennesimo sopruso da parte della polizia e il sequestro del suo banchetto di frutta e ortaggi, il giovane si lascia andare a un gesto disperato: si cosparge di benzina e si dà fuoco con un fiammifero nei pressi dell’ufficio del governatore, dopo il rifiuto di quest’ultimo di concedergli udienza. Morirà diciotto giorni dopo nel reparto di terapia intensiva del centro per traumi e ustioni gravi di Ben Arous. Il gesto di Mohamed Bouazizi sarà la miccia della cosiddetta Rivoluzione dei Gelsomini, una serie di sommosse popolari che hanno attraversato tutto il paese tra dicembre 2010 e gennaio 2011, culminate con la fuga del presidente Ben Ali in Arabia Saudita dopo 24 anni di mandato. Le rivolte in Tunisia innescheranno moti di protesta in tutto il nord Africa e in Medio Oriente. Oltre alla Tunisia, il fuoco della rivolta si diffuse in particolare in Egitto, Libia e Siria. Un fenomeno che prese il nome di “Primavera Araba“.

Sono trascorsi dieci anni da quell’ondata di proteste frutto del malcontento e della frustrazione popolare. Alla base delle rivendicazioni, c’erano richieste di libertà individuali, di lavoro, di modernizzazione sociale e istituzionale, oltre alla fine della corruzione di politici e pubbliche autorità. Nonostante la fine di alcuni regimi autoritari e i processi di transizione verso la democrazia da parte di alcuni paesi, nell’area rimangono diversi problemi di instabilità politica e sociale e molte delle richieste avanzate dalla società civile sono state disattese. A dieci anni di distanza, cosa è rimasto quindi della Primavera Araba? Questo è stato il focus dell’evento promosso dall’ISPI e dalla Fondazione Corriere della Sera.

TUNISIA: a piccoli passi verso la democrazia

Il paese si è rimboccato le maniche e ha avviato una non semplice transizione democratica. Il 26 gennaio 2014 è entrata in vigore una nuova Costituzione, contenente garanzie di libertà ed uguaglianza, principi di tutela delle tradizioni e dei diritti civili. Tra il 23 novembre e il 21 dicembre dello stesso anno si sono svolte le prime elezioni presidenziali giudicate come libere e democratiche dalla comunità internazionale, concluse con la vittoria di Beji Caid Essebsi. Punto di forza e protagonista indiscussa di questi dieci anni, la società civile: “ha sempre avuto un ruolo importante nella storia del paese. È molto attiva e vigile su quello che fa la politica. Nel 2014 la società civile è scesa in piazza a manifestare per inserire il rispetto per la parità di genere nella nuova costituzione”, spiega Leila El Houssi, docente di Storia e Istituzioni dell’Africa presso l’Università La Sapienza di Roma. Nel 2015 il “Quartetto per il dialogo nazionale tunisino”, il gruppo delle quattro organizzazioni sostenitrici del passaggio alla democrazia, viene insignito del Nobel per la Pace.

EGITTO: storia di una rivoluzione fallita

Alla fine dello scorso decennio il paese viveva ancora sotto la scure del regime oppressivo autoritario e oppressivo del presidente Mubarak Mubarak. Forze armate, sicurezza e forte burocrazia i pilastri del potere, che arrestava e imbavagliava qualunque voce critica nei suoi confronti. Nonostante i tentativi (di facciata) del presidente di avviare politiche di modernizzazione per affrontare la crisi economica, più dei due terzi dei giovani under-30 erano senza lavoro. L’apertura di Mubarak alla privatizzazione del settore pubblico altro non fece che aumentare il malcontento verso il governo, considerato sempre più “fantoccio” degli Usa. “Le proteste in Egitto non nascono con la Primavera Araba, ma sono il frutto di un percorso lungo e importante di mobilitazioni popolari occorse negli anni 2000′ e culminate con l’occupazione di Piazza Tahrir”, spiega la ricercatrice de La Sapienza e dell’Atlantic Council Alessia Melcangi. Sulla pressione dei violentissimi scontri di piazza e dell’opinione pubblica internazionale, Mubarak rassegna le dimissioni l’11 febbraio 2011, dopo 30 anni al potere. Due anni più tardi, un colpo di stato militare del generale Al-Sisi depone Mohammed Morsi, il solo e unico presidente eletto tramite elezioni democratiche appena un anno e mezzo prima. Il paese ora arranca in una situazione politico-istituzionale ancor peggiore di quella del regime di Mubarak. Secondo le Ong Amnesty International e Human Rights Watch, la dittatura brutale di Al-Sisi è responsabile di omicidi di stato, torture, arresti sommari, sparizioni forzate e condanne a morte di minori.

Primavera Araba
Foto di Alisdare Hickson

LIBIA: un processo in corso d’opera tra ricchezza di risorse e forti divisioni interne

In Libia le rivolte della Primavera Araba, presto sfociate in una vera e propria guerra civile, hanno dato il via a un processo di transizione politica ed economica ancora incompiuto. Tenuto al guinzaglio da Muhammar Gheddafi, la politica di frammentazione istituzionale del dittatore libico ha causato problemi di instabilità che permangono ancora oggi. Grazie all’intervento della NATO, i ribelli riuscirono a rovesciare il regime nell’agosto 2011. Il 20 ottobre seguente, Gheddafi venne catturato e ucciso dai membri del Consiglio Nazionale di Transizione (CNT). Diretta conseguenza dell’assistenza militare della NATO, è stato il mancato emergere di un nuovo leader tra i movimenti coalizzati contro Gheddafi: “E’ stata una rivoluzione zoppa perché è mancato un elemento di selezione naturale: tutti eroi, tutti reclamano di essere nuovi leader”, commenta Lorenzo Cremonesi, da più di 20 anni corrispondente e inviato in Medio Oriente per il Corriere Della Sera, “Il parlamento è oggi riempito da individui che sono espressione di interessi localistici e tribali. Prevale sempre lo scontro tra fazioni e non si riesce a creare un movimento unitario”. Questa è in sostanza la sfida che il paese, oggi, è chiamato ad affrontare. “La Libia è uno stato molto esteso e ricco di petrolio. E’ anche omogeneo dal punto di vista religioso perché in larga maggioranza sunnita. Se il paese riuscisse a superare le divisioni interne diventerebbe il nuovo Kwait”, ha concluso il giornalista.

Primavera Araba
Foto di Imrane Binoual

SIRIA: un paese nel baratro della crisi umanitaria

Anche qui, come in Libia, la Primavera Araba ha lasciato in eredità una guerra civile tra il regime di Bashar Al-Assad e le varie formazioni jihadiste. Secondo l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, il conflitto ha causato in totale oltre mezzo milione di morti. Non si contano poi le violenze perpetrate dal regime ai danni dei civili. Il regime violento di Al-Assad è malvisto dall’opinione pubblica sunnita (la maggioranza) per la compenetrazione cristiana e alauita al governo. D’altro canto, l’Isis rappresenta, di fatto, la risposta alla radicalizzazione della rivoluzione. Il paese oggi versa in una condizione grave di crisi umanitaria con oltre sei milioni di sfollati. E non ancora si vede una luce in fondo al tunnel.