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Piemonte insostenibile. Tra crisi demografica e lavoro

Il Pil del Piemonte nel 2022 è aumentato del 6,2% e l’occupazione è cresciuta dell’1%. Tuttavia, la popolazione piemontese negli ultimi anni è in costante calo e il settore produttivo continua a essere caratterizzato dalle difficoltà dell’automotive, con la questione sempre aperta dello stabilimento Stellantis di Mirafiori. Ma cosa c’entra questo con la sostenibilità?

“Ciò che dice l’Agenda 2030 dell’Onu è che lo sviluppo sostenibile nasce dall’integrazione di quattro fattori: economico, sociale, ambientale e anche istituzionale. Altrimenti non può funzionare” spiega Manlio Calzaroni, responsabile dell’area “Attività e progetti di ricerca” di Asvis. Dal Rapporto Territori 2023 dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile emerge, per esempio, che la regione è ancora lontana dal raggiungimento del target 8.5 (“Entro il 2030 raggiungere la quota del 78% del tasso di occupazione”). Nell’ultima puntata della nostra indagine sulla sostenibilità in Piemonte, affrontiamo quindi la situazione del territorio sul piano della crisi demografica e del lavoro.

"Il Piemonte è la seconda regione italiana più anziana dopo la Liguria"

Per ricostruire quindi il contesto demografico ed economico della regione, abbiamo intervistato Giorgio Vernoni ricercatore in economia del lavoro per l’Istituto di ricerche economico-sociali del Piemonte (Ires). “Il Piemonte e Torino, in particolare, scontano una crisi demografica più intensa, con un indice di vecchiaia nettamente superiore alla media nazionale. E Torino in questo quadro ha delle significative difficoltà perché ha perso il 6% di abitanti negli ultimi dieci anni”, racconta Vernoni.

In realtà, come osserva il ricercatore, la crisi demografica non riguarda tanto il numero assoluto di abitanti, ma la composizione degli abitanti per classi di età. Il fenomeno preoccupante, perciò, non è solo il calo della popolazione, ma il fatto che la piramide demografica sia diventata svantaggiosa, con un numero crescente di persone anziane a fronte di un numero contenuto ( e in calo) di giovani. “Questo pone un problema di sostenibilità della società e dell’economia piuttosto serio, perché gli effetti dell’invecchiamento della popolazione in età da lavoro impattano ad esempio sulla difficoltà di reperimento del personale da parte delle imprese, sia in termini quantitativi che qualitativi”, spiega Vernoni.

La difficoltà di reperimento, poi, si traduce in un numero maggiore di posti di lavoro vacanti, cioè di ruoli che le imprese dichiarano di voler occupare ma che non riescono a coprire. In Piemonte, secondo i dati elaborati da Ires, la quota di entrate considerate di difficile reperimento per mancanza di candidati è raddoppiata dal 14% nel 2018 al 27,5% nel 2022. La percentuale di posti vacanti nelle imprese con dipendenti nell’industria e nei servizi, invece, ha raggiunto nel quarto trimestre del 2022 il 2,3%: un punto in più rispetto alla media del quinquennio precedente. 

A questo problema, si aggiunge un altro fattore. La città di Torino in particolare, pur attraendo molte persone grazie alle università, fatica in un secondo momento, post-laurea, a farle restare. “Le università, negli ultimi decenni, tenendo alta la qualità dell’offerta formativa, ma contestualmente migliorando molti servizi legati al diritto allo studio, che vuol dire servizi complementari alla didattica, hanno fatto diventare Torino un’importante piazza universitaria. Il tema che si pone, come noto, è che soltanto una parte delle persone che da fuori vengono a studiare in città, poi si fermano”, dice Vernoni. 

Quali sono le cause? Il ricercatore non ne individua una sola, ma diverse. Nel determinare questa situazione c’è un concorso di fattori, economici, ma anche sociali e legati alla qualità della vita. Il mercato del lavoro torinese, da molti anni, è al centro di una transizione da un’economia prevalentemente industriale a una solo in parte industriale e con una maggiore componente terziaria. “Sappiamo, però, che questo terziario torinese non si è qualificato come è avvenuto ad esempio in città come Milano o Bologna – commenta Vernoni -. Questa terziarizzazione è stata relativamente più povera e ha comportato retribuzioni comparativamente più contenute”. Tutto ciò, dal punto di vista di uno studente, rappresenta un fattore di debolezza che può portarlo a cercare opportunità di lavoro altrove.

Il rischio, mette in guardia, è quello di entrare in una sorta spirale recessiva: la dinamica demografica non favorevole in termini quantitativi e qualitativi può impattare sulla capacità del sistema produttivo, che può a sua volta influenzare negativamente l’attrattività del territorio e, quindi, la capacità di reagire alla crisi demografica. “A livello locale, mi pare sia un po’ limitata la consapevolezza che la dinamica sfavorevole può essere compensata attraverso una gestione attiva dei flussi migratori, non solo dall’estero, ma anche interni”, ammette Vernoni. L’esempio di  Emilia Romagna e Lombardia, che hanno attratto residenti anche da altre regioni, non fa scuola dalle parti della Mole.

Il lavoro e la "lenta agonia" della questione Stellantis

La compensazione del calo demografico grazie a chi arriva da fuori Piemonte non è tuttavia una soluzione definitiva, come evidenzia anche Luca Davico, professore di Sociologia dell’ambiente e del territorio al Politecnico di Torino e responsabile scientifico del “Rapporto Giorgio Rota” del Centro Einaudi: “Non è stata risolutiva in questi anni, nel senso che non ha invertito la tendenza al declino demografico né all’invecchiamento. Però, va detto, l’ha rallentata in modo significativo. Quindi se per ipotesi tutti quelli che sono di origine straniera domani mattina abbandonassero Torino, l’invecchiamento della popolazione impennerebbe e chiuderebbero metà delle scuole della città, per esempio”. Per Davico però è cruciale la questione della cittadinanza, soprattutto per le persone nate e cresciute in Italia. Non tanto per una questione economica, ma “è anche una questione utilitaristica perché, per esempio, dove non sono stati riconosciuti i diritti alle nuove generazioni, poi le situazioni sono diventate esplosive, come nelle banlieue parigine o in alcuni quartieri delle città belghe”.

La questione demografica comunque rimane un problema, a cui si intreccia tutta la vicenda di Stellantis. Da anni l’azienda – ex Fiat e Fca – sta ridimensionando il suo impegno a Torino, andando a inficiare sull’occupazione diretta e anche sulle imprese dell’indotto. Tanto che Davico ipotizza sarebbe stato meglio avere una cesura più netta: “Se nel 1980, anziché dire chiudiamo il Lingotto, avessero detto ‘chiudiamo tutta la Fiat, ce ne andiamo da Torino’, sarebbe stato uno shock. Un po’ come fu quando da un giorno all’altro dissero che Torino non sarebbe più stata capitale d’Italia. Allora, ci sarebbe stato a quel punto un grande sconvolgimento. Poi però, se ne sarebbe preso atto e si sarebbe voltata pagina, cercando strade alternative. Non è detto che avrebbe funzionato, ma lo shock è tale che ti fa reagire”. Ora i dipendenti di Stellantis nell’area torinese – dice il professore – sono soltanto l’1,6% del totale dell’azienda, ma continuano giustamente a rappresentare un motivo di preoccupazione per le amministrazioni locali e nazionali.  La transizione di Torino per allontanarsi dalla città industriale è stata quindi una “lenta agonia”, che forse non ha permesso di rinnovarsi completamente, come anche evidenziato in precedenza da Vernoni in relazione alla terziarizzazione. 

Infine, sulla questione di giovani e laureati che non rimangono a Torino, Davico mette in evidenza un’ulteriore sfida, quella ambientale e della qualità dell’aria. “Vivere in una città che ha ancora dei modelli un po’ antichi di vivere con il territorio, per cui si è in fondo assuefatti al fatto di essere una delle città più inquinate d’Europa, che ha un sistema di mobilità in cui ancora l’auto è dappertutto, in cui ci vantiamo di avere dei pezzettini di città pedonalizzata, è un problema. Torino è interessante, ha varie opportunità. Però poi, per esempio, dal punto di vista ambientale ci fa soffrire”. C’è poi un’altro aspetto a cui fare caso, che fa comprendere come questo calo non sia soltanto legato ai percorsi dopo la laurea: da tutta Italia, la “fuga” verso un altra regione o paese interessa anche chi non ha proseguito gli studi. E questo probabilmente non cambierà fino a che le politiche, lavorative e non, non si concentreranno sui giovani e le loro esigenze. 

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