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Nazzi e il podcast: “Storie da raccontare di nuovo”

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“Il mezzo del podcast è eccezionale per raccontare le storie” dice Stefano Nazzi, autore e voce di “Indagini”, un podcast del Post che riprende i casi di cronaca nera italiana e svela il rapporto, spesso complicato tra i media e la ricerca del colpevole. Insieme alla musica, le frasi brevi e un filo conduttore sono per Nazzi gli ingredienti fondamentali per il resoconto giornalistico attraverso il podcast.

“Bisogna raccontare le storie che sono già state raccontate in modo diverso, recuperando tutto ciò che prima era stato tralasciato”, spiega Nazzi. Per questo in “Indagini” non descrive solo come si manifesta il male, chi siano coloro che compiono atti terribili, ma anche che cosa accade dopo a queste persone. Cerca di rendere chiari i meccanismi della giustizia italiana, insegnando che cosa sia ad esempio il rito abbreviato. Fa comprendere ai propri ascoltatori che nei casi di cronaca nera non è tutto bianco e nero, perché una storia può articolarsi in mille rivoli.

“Spesso queste storie sono narrate a partire da un preconcetto, come se il finale fosse già scritto” denuncia, mentre è sul palco della Bookstock Arena del Salone del Libro per presentare il suo ultimo libro Il volto del male. Ammette di aver provato ad occuparsi del caso di Emanuela Orlandi. Ha notato che nei libri scritti negli ultimi quarant’anni, il termine che ricorre di più è “verità”. “In realtà, finora di questo caso non sono stati raccontati i fatti, ma sono state date interpretazioni. Mi piacerebbe occuparmene ritornando ai fatti”. Per Nazzi, in questo, come in molti altri casi di cronaca nera italiana, i media hanno avuto un ruolo centrale nell’ostacolare le indagini. Dopo l’omicidio di Sara Scazzi, il comune di Avetrana si era trasformato in un set televisivo. “Tutto ciò racconta come i media influenzino certi fatti di cronaca, fotografa un Paese che si divide anche davanti ai fatti di cronaca”, conclude. Per ora un solo caso lo mette in difficoltà e probabilmente non racconterà a breve: quello di Desirée Piovanelli di Brescia. Proproo perché, rivela, non riuscirebbe a fermarsi ai fatti.