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“L’arte del reportage di guerra”: il come racconto come prova

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“Si può amare una sola guerra. Il resto è responsabilità”. Sono parole di Martha Gellhorn , e vengono citate dalla giornalista statunitense Janine di Giovanni in apertura dell’incontro  “L’arte del reportage di guerra”. “La mia guerra è stata Sarajevo” dice di Giovanni. In seguito, ha seguito molti conflitti sparsi per il mondo. “Ma – dice – Sarajevo mi ha segnata in maniera indelebile. E, proprio in quell’occasione, incontrai per la prima volta Jeremy Bowen, uno dei più grandi giornalisti della Bbc. Che oggi siede di fianco a me”. Sul palco dell’Auditorium San Francesco c’è il reporter inglese insieme ad altri colleghi internazionali. C’è Jodie Ginsberg, ceo del Committee to Protect Journalists, no profit indipendente che si occupa di tutelare la libertà di stampa in tutto il mondo. E c’è anche Ron Haviv, fotoreporter di guerra e filmaker, cofondatore di VII Photo Agency

Dall’Auditorium San Francesco di Perugia prende vita il racconto dei conflitti di ieri e di oggi, tramite lo sguardo dei reporter che sono andati sul campo. Janine di Giovanni, vincitrice di due Amnesty International Award, ha fondato Reckoning Project, unità che documenta i crimini di guerra e che collabora in questo modo con la giustizia internazionale.  “I genocidi in Bosnia, Ruanda e il massacro degli yazidi mi hanno portato a fondare il Reckoning Project insieme a altri colleghi – dice – Abbiamo visto che troppo spesso non viene realmente fatta giustizia per gli orrori che vengono compiuti durante i conflitti. Così abbiamo deciso di lavorare insieme per raccogliere le prove dei massacri. Inoltre, per la nostra comunità proteggere i giornalisti e tutelare il loro lavoro è un mantra”.

Il giornalismo come testimonianza, il racconto come prova inconfutabile. “Si tratta dell’essenza del nostro mestiere” dice Jeremy Bowen, che ha vissuto la guerra in Bosnia, in Iraq, in Afghanistan, a Gaza. Non si trova pienamente d’accordo con la citazione Martha Gellhorn. “Vero è che i primi conflitti che si affrontano segnano tutta la carriera. Per me è stata la Jugoslavia, ma ho vissuto con grande intensità anche il Medio Oriente e più recentemente l’Ucraina. Non sono stato a Gaza perché non ci lasciano entrare. In ogni occasione mi sono confrontato con l’orrore della guerra. Violenza, soprusi, morte, la perdita di ogni cosa. Essere lì e parlare con i civili che vivono tutto ciò in prima persona ha una sola (immensa) giustificazione: raccontare la verità. In questo modo noi giornalisti possiamo, con il nostro mestiere, rendere giustizia a chi subisce le guerre. Così che la sofferenza non possa essere affossata, così che il mondo sappia che ci sono delle responsabilità che devono essere identificate”. 

Una visione condivisa anche da Ron Haviv, fotoreporter, regista nominato agli Emmy. Il suo lavoro è stato fondamentale per la cronaca dei diritti umani violati. Anche la sua carriera ha avuto in inizio nell’ex Jugoslavia, con il primo servizio durante la battaglia di Vukovar. “Di quegli anni conservo ricordi nitidi – spiega -. In Bosnia capii quale era lo scopo del mio lavoro. A Belgrado seguivo le forze serbo-croate e un giorno assistetti all’esecuzione di un combattente albanese. Provai a scattare delle foto, ma un soldato serbo mi puntò la pistola alla testa. Non potevo far niente per fermare l’esecuzione e non sono nemmeno stato in grado di documentare quella morte. Mi feci una promessa: da quel momento avrei dovuto uscire da ogni situazione del genere almeno con una prova fotografica”. 

E per difendere i reporter e il loro lavoro, Jodie Ginsberg ha creato The Committee to Protect Journalists, con base a New York ma attiva in tutto il mondo tramite i suoi esperti. “Penso quotidianamente alla mia squadra in Ucraina, o alle persone di Gaza. Civili che non hanno scelto di essere giornalisti, lo sono diventati loro malgrado”. Alle vittime della Striscia, giornalisti e civili, viene rivolto più di un pensiero. “Venti, trenta anni fa, i giornalisti erano più tutelati – dice Ginsberg – Oggi tutte le statistiche che raccogliamo mostrano che i giornalisti sono più vulnerabili e che hanno maggiori probabilità di essere uccisi, feriti, imprigionati nelle guerre. Quindi il giornalismo di guerra cambia. Come nel caso di Gaza. Sul territorio non agiscono per lo più i giornalisti internazionali, ma soprattutto i locali. Con la conseguenza che ci sono situazioni che possono essere raccontate con un’ottica interna, più precisa. Ma, dall’altra parte, può mancare lo sguardo di imparzialità nella narrazione dei conflitti”.