“Quando si esce dalla struttura, il carcere non finisce. Continua: c’è lo stigma. La scuola deve accompagnare i propri studenti al di là del carcere, perché possano trovare una connotazione all’interno di quel mondo che li deve accogliere”, racconta Anna Grazia Stammati, presidente del Cesp dal palco della sala Rosa del Salone del Libro, dove si è tenuta la seconda giornata di “Il carcere e lo specchio”, l’evento organizzato dal Centro Studi Scuola Pubblica (Cesp) e dedicato alla riflessione sul tema delle pene e al diritto dei detenuti.
L’articolo 27 stabilisce la natura rieducativa della pena detentiva. Il reinserimento dei detenuti, però, è una procedura molto complessa, che ha bisogno di un intervento multidimensionale. Sonia Specchia, segretaria generale della Cassa delle Ammende, sottolinea come la popolazione carceraria sia variegata: ci sono persone sieropositive, tossicodipendenti, con disabilità o con disagi psichici. Si tratta di problematiche che richiedono una risposta personalizzata, esattamente come quella fornita, ad esempio, dagli insegnanti di sostegno nelle scuole: “Il dentro è una proiezione del fuori e riflette ciò che viviamo nella realtà quotidiana — afferma Specchia — È fondamentale intervenire sul potenziamento della capacità istituzionale”.
È fondamentale anche lavorare all’interno delle strutture per assicurare ai detenuti la possibilità di formarsi e di lavorare in funzione di una vita futura, al di fuori del carcere. “La biblioteca – prosegue Specchia – non serve solo a trascorrere il tempo all’interno dell’istituto penitenziario o ad assicurare alle persone un momento di evasione. Per i detenuti, dovrebbe diventare un’opportunità di apprendimento sia da un punto di vista scolastico e universitario, sia professionale, per consentire loro di avere uno sguardo volto al futuro”.
La popolazione carceraria è costituita da 56 mila persone. Gli studenti universitari detenuti sono circa 1450, ovvero il 2,6% del totale. Franco Prina, coordinatore nazionale della Conferenza nazionale università poli penitenziari (Cnupp), sottolinea però che i detenuti ad avere un diploma o una laurea — e a poter accedere all’università — sono solo 8mila. Di conseguenza, il numero di studenti detenuti diventa un dato importante, che acquista un valore maggiore se si considera che 600 soggetti si trovano in strutture di media sicurezza, 537 in istituti ad alta sicurezza, 39 al 41bis e 5 in istituti penali minorili. Le iscrizioni riguardano ben 417 corsi di laurea, e due detenuti stanno conseguendo un dottorato.
“Studiare significa dare un senso al tempo. Significa poter pensare, riflettere, crescere, acquisire strumenti per affrontare il mondo sia fuori, sia dentro carcere, come nel caso degli ergastolani ostativi. Vuol dire guardare diversamente il mondo e rappresentarsi agli occhi degli altri come qualcosa di diverso, e non solo come un detenuto”, spiega Prina.