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Il tormento linguistico di Domenico Starnone

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‘’Io mi chiamo Domenico Starnone e sono qui’’. Si presenta così al pubblico l’autore di L’umanità è un tirocinio, romanzo autobiografico uscito all’inizio di quest’anno. Chi è in sala ovviamente già lo conosce. Nel 2001 ha vinto il Premio Strega con Via Gemito, ma oltre a essere uno scrittore affermato per tanti anni è stato anche professore. Chiede scusa già in principio se ogni tanto, durante l’incontro, userà formule come “Vi è chiaro?”.

E prima ancora di essere scrittore e professore è stato alunno. Amava andare a scuola: è proprio in classe che ha avuto inizio quello che ha definito il suo “impasto linguistico”, che è ben presente nel suo ultimo libro. Tra le pagine racconta la sua formazione intellettuale, un processo in cui il fattore linguistico risulta essere essenziale.  “Ho voluto raccontare soprattutto di che lingua sono fatto – dice -. Sono nato a Napoli nel ’43. Sono l’unico della mia famiglia ad aver preso il diploma, mia madre era sarta e mio padre era operaio elettrotecnico nelle ferrovie. Mia nonna aveva fatto la seconda elementare ma sosteneva di saperne molto di più di me che ero in quinta. Probabilmente aveva ragione”.

A casa Starnone si parlava solo napoletano. “Se uno diceva una parola come ‘allibito’ o era stupido o faceva il saputello. Quindi per me andare a scuola era la scoperta della lingua italiana, che era difficile per chi parlava solo napoletano. Ma mi affascinava e soprattutto era la lingua che dava accesso ai libri. E poi c’era il cinema, che era uno strumento potentissimo. E ci portava sempre mia nonna, che era incaricata di tenerci occupati affinché mio padre potesse dipingere nel tempo libero e mia madre continuare nel lavoro. Non era strano vedere due film di seguito in una giornata”. Ma già durante la scuola il giovane Starnone percepiva che anche l’italiano dei libri non era proprio l’italiano che si imparava a scuola. Racconta di essere stato sempre bravissimo ad incastrare lunghi periodi con subordinate perfette: per questo motivo la docente esterna alla maturità gli strinse forte la mano. Eppure, c’era qualcosa che non gli tornava perché i grandi autori del momento non scrivevamo come gli era stato insegnato. “Così intorno ai 25 anni ho deciso che non sapevo scrivere”. 

Proprio all’inizio del suo ultimo libro Domenico Starnone racconta gli aneddoti più emblematici della sua scoperta della lingua italiana. Il primo avviene tra le mura di casa durante un litigio tra sua madre e suo padre. “Ad un certo punto mio padre usò questa parola: vanesia. Rimasi senza fiato. Non sapevo cosa significasse ma era una parola italiana, in primis. E poi era difficilissima. In quel momento, anche se ovviamente non pensavo che potesse essere attribuita a mia madre davvero, rimasi impressionato. E decisi di tenere questo termine bene a mente”. E poi le vicende autobiografiche dello scrittore e le riflessioni si susseguono in un’analisi che verte tutta sull’umanità. Per scrivere questo libro l’autore ha dovuto immergersi negli appunti e negli scritti di una vita. Ha ripescato da una montagna di carta tutto quello che ha ritenuto funzionale al racconto della sua formazione come intellettuale e come persona. “Umani si diventa – scrive – è un tirocinio dall’esito incerto. E al tirocinio contribuisce non poco la letteratura con le sue oscillazioni tra commento e sgomento”.