La testata del Master in Giornalismo “Giorgio Bocca” di Torino

Il racconto del carcere tra arte e testimonianze

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“E Caroline piange, Caroline ha l’ansia, Caroline vuole il mare ma ha paura dell’acqua”. “Caroline” è la canzone dei Måneskin con la quale si è deciso di aprire la presentazione del progetto “Game Over – Oltre le sbarre”, andato in scena nell’aula magna del Campus Einaudi. Ma Caroline è anche ognuno dei presenti: è il ragazzo di terza superiore seduto in platea insieme ai suoi compagni; è Marina, la giovane donna che ha vissuto 8 anni di carcere e ora, davanti a centinaia di studenti, racconta la sua storia. 

“In alcuni di voi mi ci rivedo” spiega. Dice che al liceo era la prima della classe. “Ma ad un certo punto, vittima delle prese in giro e di difficoltà mie personali, ho iniziato ad assumere qualunque tipo di droga. In quel modo non vedevo e non sentivo più i miei difetti. Andavo a tutte le serate, dal giovedì alla domenica. Pensavo di essermi finalmente integrata”. Poi la dipendenza, i soldi che mancano e i primi furti. “L’anestetico non è servito a niente – dice Marina –. Sto pagando tantissimo. Sto cercando di ricostruirmi poco a poco, ma è tutto in salita”. Ha lasciato il carcere a gennaio, adesso sta cercando un lavoro, intanto studia. Alla fine del suo discorso un lungo applauso la incoraggia.

“Game Over – oltre le sbarre” è un progetto che permette agli studenti delle scuole superiori di entrare in carcere. Coinvolge gli istituti di Torino e delle città limitrofe ed è prodotto dal Fondo Alberto e Angelica Musy in collaborazione con le associazioni “Sulleregole” e “Teatro e Società”. Quest’anno alcune classi hanno avuto modo di entrare al Ferrante Aporti, carcere minorile di Torino. Sono stati organizzati una decina di incontri, gli ultimi dei quali si svolgeranno il prossimo ottobre. Non tutte le classi, però, hanno potuto fare questa esperienza, né la faranno nei prossimi mesi. I posti sono limitati. Così si è deciso di colmare questa mancanza con un incontro che coinvolgesse tutti, nell’idea che parlare di carcere sia fondamentale. Testimonianze ed arte hanno dato vita ad un’unica narrazione: gli interventi dei relatori sono stati intervallati dai monologhi degli attori di “Teatro e Società”, associazione che da anni lavora con i detenuti tramite attività e laboratori.

Un tema affrontato da ogni punto di vista. Claudio Sarzotti, professore di “Sociologia del diritto” dell’Università di Torino ne ha raccontato la storia. Al presente ci ha pensato Monica Cristina Gallo, garante dei diritti delle persone private della libertà personale della città di Torino. “Le difficoltà sono enormi – ha spiegato -. Non ci sono abbastanza posti, il sovraffollamento è uno dei grandi problemi. Ad esempio, nella casa circondariale ‘Lorusso e Cotugno’ (ex Vallette) la capienza è di 1.000 persone e dentro ce ne sono 1.400. E il 12% delle persone detenute è nato tra il 2004 e il 1998. Se il carcere minorile Ferrante Aporti è comunque pensato a misura di ragazzo, le altre strutture sono molto lontane dall’idea di tutela della dignità della persona”. Le celle sono piccole, umide, fatiscenti. Non si può scegliere il compagno di cella, non si può scegliere a che ora mangiare, non si può scegliere quando lavarsi. Dentro ci sono 160 ventenni, alcuni attendono il processo, altri scontano la pena. 

Monica Cristina Gallo racconta di uno degli incontri che più l’ha toccata nella sua esperienza professionale. “Un giorno ho fatto un colloquio con un ragazzo che voleva continuare a studiare. Aveva finito le superiori in carcere e voleva iscriversi all’università. La possibilità c’era e durante l’incontro era tranquillo. Alla fine, si è alzato ed è andato verso la porta. In quel momento si è girato e, sotto gli occhiali, ho visto scendere delle lacrime. Mi ha chiesto se sapevo del suo reato e io ho risposto di no, perché non lo chiedo mai. Così me lo ha detto lui: ‘Sono uno dei ragazzi di Piazza San Carlo. Ma io non sono solo quella roba lì. Sono molte altre cose, che in carcere non riesco a far uscire. Vorrei che mi aiutasse in questo’. E io l’ho fatto”.  

Educare significa “tirare fuori”. Lo sa bene Mara Lorenzo, educatrice. Parla di potenzialità, che molti ragazzi non sospettavano nemmeno di avere. Le risorse sono poche ma la rieducazione resta il fine, così come il reinserimento sociale. Il suo lavoro è quello di “trovare un senso” a quello che è accaduto, a quello che sta accadendo e a quello che accadrà, oltre le sbarre. “Il percorso in carcere è difficile e molto intenso – spiega -. Tutti i ragazzi vogliono uscire ma non è scontato che nasca in loro il desiderio di cambiare per non ritornare dentro. Quando si realizza questa volontà il nostro lavoro è praticamente concluso”. Poi la musica. 

Entra in sala Milo Scotton, artista che ha fondato la scuola circense “Chapitombolo”. La sua è l’ultima delle performance teatrali presentate durante la mattinata. Cammina tra gli studenti con in mano una gabbia che è fatta di nastro adesivo, eppure è pesantissima. Ci entra, si incastra, fa fatica a liberarsene. Ci volteggia dentro, la respinge, la abbraccia. È una battaglia. Quando riesce a liberarsene, affronta una scala che sembra non avere un ultimo gradino. Alla fine, riprende in mano quella gabbia che c’era in principio. Ma tutto è cambiato.