La testata del Master in Giornalismo “Giorgio Bocca” di Torino

Il giornalismo non è un mondo per donne. Ma quale lo è?

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Le discriminazioni di genere rappresentano una realtà sistemica, che permea più o meno profondamente ogni ambito sociale. Non fa eccezione nemmeno il mondo dell’informazione, che al contrario, ricoprendo il ruolo di costruttore della realtà, contribuisce ulteriormente a perpetrare una narrazione distorta ed esclusiva, in cui uomini parlano ad altri uomini, anche quando l’oggetto di discussione sono le donne.

Una quantificazione del fenomeno è sfuggente e complessa. A restituirne un quadro critico possono concorrere l’esperienza di giornaliste che quotidianamente combattono per l’affermazione dei propri diritti e alcune ricerche che, tramite misurazioni e dati, riescono a mettere nero su bianco il problema.

La partecipazione delle donne al giornalismo si attesta un secolo dopo la sua nascita, nel 1800, confinata ai magazine rosa e alla cronaca leggera. La prima ricerca condotta sull’immagine femminile nei media risale soltanto al 1979, quando ancora si registrava una scarsa presenza delle donne nel mondo dell’informazione e una loro rappresentazione stereotipata, principalmente in veste di madri. Ancora nel 2001 l’International Women’s Media Foundation riscontrava che le posizioni di comando nelle redazioni erano occupate soltanto per il 30% da donne e che in 42 paesi tra Europa, Africa e Asia erano gli uomini a occuparsi della maggior parte delle notizie ed essere chiamati in qualità di esperti. Solo nel 16 percento dei casi, poi, le donne erano presenti come protagoniste della notizia e per la maggior parte solo attraverso stereotipi legati alla maternità. Nessuna novità, quindi. E oggi?

I numeri di una presenza assente

L’Osservatorio di Pavia ha realizzato nel 2019 una ricerca condotta su 700 programmi televisivi italiani, che fotografa una realtà sempre uguale a se stessa. La rappresentanza femminile supera il 50 percento solo quando la donna è componente del pubblico, mentre le situazioni più critiche si registrano soprattutto nel numero ridotto di opinion makers ed esperte ingaggiate per i talk show. Di queste la partecipazione alle questioni politiche ed economiche è davvero irrisoria (6 e 7 per cento dei casi). La risposta in Italia c’è e l’ha realizzata GiULiA – Giornaliste Unite Libere Autonome – che dal 2016 si dedica alla compilazione di un database europeo contenente alcuni nominativi di esperte in diversi campi, che i media possono consultare se intenzionati a favorire una maggiore inclusione. Fa discutere a tal proposito la scelta dell’Associazione Stampa Romana di indire un webinar nella giornata di oggi per parlare di giornalismo digitale, dove, tra gli illustri esperti e giornalisti invitati, non figura nemmeno una donna.

Anche sulla carta stampata la musica è sempre la stessa: in uno studio dell’Osservatorio europeo di giornalismo si fa evidente una netta supremazia maschile nella scelta dell’agenda mediatica e nella redazione degli articoli, ancor più nei settori economici e d’opinione. Nei giornali cartacei e testate native digitali prese in esame, la stesura di articoli per mano femminile si attesta al 21% sulla totalità dei pezzi. “Quando ho iniziato io, parlare di donne era una scelta minoritaria” ricorda Stefanella Campana, redattrice per l’Avvenire e firma de la Stampa per 25 anni, che la definisce la sua battaglia: una lotta sfiancante, e penalizzante sul lungo periodo, per portare all’attenzione collettiva la disuguaglianza di genere. “Non essere sola, però, mi dava forza. Alla fine degli anni ‘70 erano nati i coordinamenti delle giornaliste, che univano le singole battaglie all’interno delle redazioni per denunciare un problema comune. Quei problemi li viviamo anche adesso, ma qualche miglioramento c’è. Temi che una volta facevo una fatica enorme a inserire in agenda, adesso vengono trattati con più facilità.”

La scarsa presenza di firme si ripercuote inevitabilmente sulle rappresentazioni dei generi. Oltre a una presenza marginale (le donne compaiono in fotografia nel 12% dei casi) ed estremamente settoriale – l’interesse per le donne si manifesta principalmente nel caso in cui queste siano vittime di violenza – il linguaggio utilizzato per parlarne è ancora radicalmente sessista.

Elena Miglietti si occupa di narrazione e di sport, un settore ancora prettamente maschile e maschilista. “Ho iniziato con GiULiA a monitorare il linguaggio utilizzato nel racconto sportivo: faccio attenzione alle aggettivazioni, alle parti del corpo delle atlete su cui indugia la videocamera e cerco di sovvertire i paradigmi. Io credo che la nazionale italiana abbia pagato lo scotto più caro di tutte noi quando sono state definite le ‘cicciottelle del tiro con l’arco‘. Il problema è che a raccontare lo sport sono ancora principalmente gli uomini; mi piacerebbe che riconoscessero il proprio privilegio e decidessero di lasciare spazio anche a donne competenti”.

L’iniquità nella distribuzione di potere e compensi

Avere potere è quindi fondamentale, perché permette di stabilire cosa è importante abbastanza da comparire sui giornali e cosa non lo è. Ma se è difficile che una testata dia lo stesso spazio ad entrambi i generi, quasi impossibile è trovare una donna in una posizione di responsabilità. Solo una presidente su venti tra gli Ordini regionali dei giornalisti e solamente una direttrice nei venti principali quotidiani nazionali, rispettivamente il Lazio e La Nazione. Agnese Pini è la prima direttrice donna della testata; tutti gli altri quotidiani presi in esame non ne hanno mai avuta una. Nel 2017 su 10 caporedattori 7 erano uomini, leggermente maggiore invece la percentuale dei capiservizio donne. “Il contratto per chi è assunto è uguale per tutti, il problema poi si vede nella progressione.” Mimma Caligaris è caposervizio dello sport a Il Piccolo e una delle due donne che fanno parte della redazione permanente: “man mano che si sale, le donne sono sempre meno, tanto che fa ancora notizia che una diventi vicedirettrice. Per non parlare poi delle direttrici: dentro la Rai, ad esempio, ce n’è una sola.”

Il fatto che la scalata verso posizioni di responsabilità sia talmente ripida da essere quasi impraticabile, si riflette inevitabilmente sugli stipendi. La differenza salariale nel 2017 era di 13 mila euro l’anno, 65 mila euro in media per gli uomini e 42 per le donne.

“Il gap è maggiore nelle collaborazioni. Se arrivi a un certo livello e non fai un balzo in avanti, la forbice aumenta.” continua Caligaris. Un progressivo, per quanto lento, miglioramento negli anni lascia però qualche spiraglio all’ottimismo: il divario si è ridotto rispetto al 2008, quando era ancora di oltre 20 mila euro annui. C’è da chiedersi il perché di una retribuzione iniqua, che si ripercuote inevitabilmente anche sulle pensioni, tracciando un solco che segna l’intera vita della giornalista.

Sopraffazione e abusi come riaffermazione di autorità

Non solo marginalizzazione e disparità, ma anche molestie. Perché “il potere è poco e nessuno vuole condividerlo” ci dice Stefanella Campana, ma se si è costretti a concederlo lo si fa togliendone legittimità e riaffermando la supremazia tramite altri tipi di soprusi. Secondo un’indagine condotta nel 2019 dalla Fnsi, tra più di mille giornaliste rispondenti l’85% dichiara di aver subito una qualche forma di molestia nel corso della vita lavorativa. Battute verbali e avance che mettono a disagio, ricatti sessuali e richieste di prestazioni, fino a vere e proprie violenze sessuali. A commetterle, in 3 casi su 4, dentro le stesse redazioni, è un superiore.

Garantire parità e pluralità nell’informazione è un dovere concreto e non un obiettivo speculativo. Parlare della realtà in modo esaustivo significa contemplare una dialettica tra i generi. “Ma il patriarcato è astuto, trova sempre nuove vie (a volte apparentemente liberali ed inclusive) e continua a nascondere sotto la falsità del neutro (che invece è uniformato al solo modello maschile) il proprio potere.” Per Daniela Finocchi, giornalista e parte del Coordinamento Giornaliste del Piemonte, “la violenza contro le donne non è solo quella fisica che scaturisce – nella sua fase più estrema e terribile – nei femminicidi, ma passa anche attraverso le parole, le immagini, la cultura ‘neutra’ che neutra non è, il diritto ‘neutro’ che neutro non è.”

E il giornalismo, nella sua funzione di raccontare la realtà, ha un grande potere e una grande responsabilità. “Il cambiamento deve partire da noi, dalla volontà di fare una narrazione diversa – ci dice Mimma Caligaris – Molto spesso per arrivare prima degli altri si sfornano notizie senza controllarle, magari riportando interamente i report delle forze dell’ordine, dalla narrazione molto maschilista. In questa corsa frenetica è il linguaggio a rimetterci, ma non è più accettabile. È necessario un percorso culturale profondo: la professione deve ripensarsi perché è arrivato il momento di cambiare il modo di fare notizia.”