Enzo Tortora, quarant’anni dopo: una lezione per il giornalismo

condividi

Nell’estate del 1983 la tivù nazional popolare fu sconvolta dalla notizia dell’arresto di Enzo Tortora, presentatore simbolo di programmi iconici della Rai come Campanile Sera, Portobello e la Domenica Sportiva. Il caso Tortora, con i suoi risvolti personali e professionali, si intreccia inevitabilmente sotto il profilo giudiziario, giornalistico e culturale con la storia del nostro Paese, di cui rappresenta uno degli esempi più noti di malagiustizia. Il presentatore, infatti, venne arrestato per associazione a delinquere e traffico di sostanze stupefacenti a seguito delle accuse formulate da alcuni soggetti vicini alla camorra dimostratesi, tempo dopo, un ammasso di falsità. Troppo tardi però per Tortora, che negli ultimi cinque anni della sua vita dovette affrontare un calvario tra il carcere, gli arresti domiciliari, l’esperienza da europarlamentare e il tanto agognato ritorno in televisione, a una settimana dall’assoluzione definitiva da parte della Cassazione e appena 18 mesi prima della sua scomparsa, il 18 maggio 1988.

“Sono un giornalista!”

A trentacinque anni da quel giorno, il Salone del libro di Torino sceglie di rendere omaggio a Enzo Tortora ospitando la presentazione di “A testa alta, e avanti” (Mondadori), l’opera autobiografica di sua figlia Gaia. Presenti con lei anche Enrico Mentana e Marco Damilano, due penne tra le più in vista del giornalismo italiano chiamate a ragionare, oltre che sulla vicenda di Tortora in sé, soprattutto sull’eredità di un caso così clamoroso.

Rielaborando la metafora del calvario, Mentana parla del “doppio patibolo” spettato a Tortora, ovvero “i processi infondati e l’enfatizzazione con cui i mezzi di comunicazione hanno trattato la vicenda”. Il caso di Enzo Tortora ha assunto un rilievo determinante per chi opera nel campo dell’informazione: all’epoca dei fatti molti furono i nomi noti del giornalismo e della cultura che si schierarono al suo fianco, su tutti Leonardo Sciascia, Piero Angela e Giorgio Bocca. Quel “sono un giornalista, non un fattorino della camorra” che Tortora esclamò all’inizio del processo fu una vera e propria affermazione di identità anche se, afferma Damilano, “non si trattava di un semplice giornalista ed è impossibile descriverlo con una sola definizione”. Giustizia e informazione sono tenute assieme da un legame strettissimo, ma oggi il pericolo più grande che si è chiamati a fronteggiare è l’eccessiva polarizzazione del dibattito nello spazio pubblico, con la conseguente cristallizzazione di posizioni estreme “che finiscono per renderci simili ai giudici” portandoci, se va bene, all’uno contro l’altro, se va male al tanti contro uno. E questa, per dirla con l’editorialista di Domani, è “la fine del dibattito pubblico”.

Lo ha detto la tivù: i rischi del nuovo ipse dixit del Novecento

Marco Damilano

Nel caso Tortora si assiste al linciaggio mediatico di un personaggio che, paradossalmente, ha visto nella televisione la porta per il successo e per la disgrazia. Il tema non è tanto ragionare su quanto sia stato opportuno comunicare l’accaduto (“parliamoci chiaro, il giorno dell’arresto quella era la notizia da dare, senza sé e senza ma” ha detto Mentana). Piuttosto, è bene riflettere sul modo in cui i mezzi di informazione hanno trattato Tortora e la vicenda ad egli correlata: “guardando quelle immagini” ricorda Damilano, “l’idea che ci arrivava era che in un modo o nell’altro fosse successo qualcosa, e forse quella era la cosa giusta da fare”. Vedere la televisione significava, quarant’anni fa in modo particolare, entrare in contatto con la realtà, l’unica immaginabile come vera e che, pertanto, non dava adito a speculazioni o dubbi. Come ricordato da Aldo Grasso, “le reti Rai mandarono in onda ininterrottamente e senza pietà le immagini del conduttore ammanettato”, sequenze intrise di un voyeurismo perverso che aveva iniziato a diffondersi su larga scala fin dalla lunghissima diretta in occasione degli inutili soccorsi al piccolo Alfredino Rampi, morto in un pozzo artesiano l’11 giugno 1981 a Vermicino, vicino Roma. Era nata la tv del dolore, che innescava nel pubblico il pensiero secondo cui i verdetti di morte o colpevolezza fossero già scritti per il solo fatto che le immagini raffigurassero una determinata circostanza.

Gaia Tortora

Tra un intervento e l’altro dei due relatori, anche Gaia Tortora racconta a piccole dosi la propria esperienza: “sentirsi sbagliati quando si è nel giusto è lo stato d’animo degli imputati innocenti nei processi” afferma, “è qualcosa di straniante perché senti come se la vita che riposava su alcune certezze di colpo svanisca per sempre”. E sul caso giudiziario del padre, ammette: “Dalla macchina del fango all’invidia altrui, ho provato a farmi una ragione di ognuna di queste opzioni ma non sono mai riuscita a trovare una spiegazione plausibile e appagante”.

“La giustizia italiana soffre un problema di mentalità”

Nel suo intervento, Enrico Mentana pone maggiormente l’accento sull’aspetto giudiziario di una vicenda che, secondo lui, ha il suo più grande vulnus nell’assenza di azioni penali o indagini a carico dei magistrati che hanno istruito il processo, i quali anzi “sono stati più volte promossi, terminando la loro carriera solo per anzianità, al contrario del loro imputato: questo è il vero scandalo!” Il giornalista punta il dito contro una concezione della giustizia “da stadio”, suscettibile al sentire comune dell’opinione pubblica secondo i meccanismi già raccontati da Marco Damilano. Tuttavia – ed è questo uno snodo cruciale – “il caso Tortora non avrebbe avuto un impatto così forte se non avesse riguardato una persona nota e anche un po’ divisiva, visto che il suo stile leggermente elitario gli aveva attratto qualche critica”. E lui, che evidentemente era ben consapevole di questa situazione, colse la prima occasione pubblica, il ritorno in tv dopo tanto tempo, per dire a gran voce: “io sono qui anche per parlare per conto di quelli che parlare non possono, e sono molti, e sono troppi. Sarò qui, resterò qui, anche per loro”.

Enrico Mentana

Insomma, non soltanto il verdetto era stato già stabilito a priori, ma si è assistito al “festival dell’indignazione popolare” tra chi provava un piacere indescrivibile nel dare una sberla – metaforica, è chiaro – a Tortora, semplicemente perché si pensava che meritasse il processo mediatico e quello reale, con annesso carcere preventivo (“che è un abominio concettuale” tuona Mentana). Ma perché pensare che una persona, famosa o meno, meritasse quel che ha ingiustamente subito? La questione è che se si decide di procedere a un arresto bisogna essere in possesso di prove schiaccianti, non di sostegno popolare, ma pur in assenza delle prime quei magistrati non hanno avuto alcun dubbio sul mettere agli arresti Tortora, “cadendo così vittime del fascino della colonna infame”, preziosismo manzoniano citato da Mentana per evocare uno dei primi casi documentati di malagiustizia in Italia. “È vero che fa più notizia una storia torbida che riguarda le persone, meglio se famose” ha detto il direttore, “ma i magistrati di allora avrebbero dovuto immaginare che l’opinione pubblica e l’informazione avrebbero reagito in quel modo”.

Per concludere, se è vero – come dice Mentana – che la giustizia italiana ha un problema a livello di mentalità, viene da chiedersi fino a che punto una riforma giudiziaria possa servire a ristabilire l’ordine nel caos mentale dell’opinione pubblica italiana. In tal senso i mezzi di comunicazione e, nello specifico, il giornalismo da tempo ha provato a mettere in campo strumenti utili a contrastare un utilizzo dannoso della parola, stabilendo nella Carta di Milano il protocollo deontologico su notizie concernenti carceri, persone in esecuzione penale, detenuti o ex detenuti che tiene in conto soprattutto l’importanza del reinserimento sociale degli individui. L’obiettivo è riuscire a contrastare una narrativa della colpa che arriva a decretare verdetti prima ancora della giustizia, fino ad esercitare su di essa una pressione tale che – alle volte – finisce per spingere la magistratura a procedere in tempi precoci. Le vicende di Meredith Kercher, Sarah Scazzi e Yara Gambirasio testimoniano bene questa tendenza, ma – come nel caso di Enzo Tortora – dietro gli episodi più noti si celano tante storie quotidiane, sicuramente più di nicchia ma che contribuiscono inevitabilmente ad incrementare il numero dei casi di malagiustizia in Italia. In questa babele in cui tutti, a vario titolo o proprio perché in assenza di un titolo, si sentono in diritto di puntare il dito sull’accusato designandolo colpevole prim’ancora della sentenza, esistono realtà impegnate nella ricerca costante della verità priva da ogni pregiudizio. Sono associazioni che come Aivm si schierano a sostegno delle vittime della malagiustizia, ma sono anche tanti giornalisti come Giacomo di Girolamo che, dalle colonne del proprio blog, porta avanti una battaglia lenta ma inesorabile, con la consapevolezza di avere a disposizione tutti gli strumenti utili a innescare quella rivoluzione della mentalità emersa anche al Salone del libro.