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Donne ai vertici di società quotate e a controllo pubblico: a che punto siamo?

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In molti ambiti lavorativi, le disuguaglianze fra uomini e donne si accentuano man mano che crescono le responsabilità degli incarichi. Si tratta del cosiddetto “soffitto di cristallo“: anche in settori dove c’è una forte occupazione femminile, le donne fanno maggiore fatica a progredire in carriera. Le cause sono diverse, ma partono da un fattore culturale ancora radicato: specie se mamme, sono le donne a sobbarcarsi i carichi familiari. La conseguenza è un circolo vizioso che induce i capi a non promuoverle perché più assenti dal luogo di lavoro.

I ruoli tradizionalmente riservati agli uomini sono, fra gli altri, quelli nelle società quotate e a controllo pubblico. Queste aziende sono decisive per l’economia nazionale: per fare degli esempi, fra le prime figurano le compagnie assicurative (Axa, Allianz) o le società calcistiche, come la Juventus; fra le seconde ci sono la Rai, Poste Italiane, i gruppi Eni ed Enel. È evidente il prestigio degli incarichi nei relativi organi – consigli di amministrazione e collegi sindacali – e, di conseguenza, l’importanza di rispettare l’equilibrio di genere. Ci sono stati dei passi avanti, a partire dalla legge Golfo-Mosca del 2011 (l. n. 120/2011), che ha imposto alle società quotate di riservare un terzo delle nomine dei membri degli organi al genere sotto-rappresentato. Lo stesso obbligo è stato esteso alle società controllate dallo Stato con un regolamento attuativo della legge, entrato in vigore nel 2012 (dPR n. 251/2012).

Stando a quanto rilevato nel rapporto sulla partecipazione femminile negli organi di amministrazione e controllo delle società, stilato da Banca d’Italia, Consob e dipartimento per le Pari opportunità, è ancora necessario imporre le quote di genere per colmare le disuguaglianze in questi ruoli. Nelle società quotate, ad esempio, si registra una crescita rilevante: nel 2019 i Cda erano formati per il 37% da donne, mentre nel 2011 la percentuale era del 7%. Un dato che è interessante se comparato alle società private dove, non essendoci vincoli legislativi, la crescita di incarichi al femminile procede a rilento: dal 22% del 2011 al 24% nel 2019.

Il bilancio di genere del ministero dell’Economia e delle Finanze, che monitora annualmente l’impatto che ha la politica di destinazione delle risorse pubbliche su donne e uomini, analizza anche l’equilibrio della partecipazione tra i due sessi negli organi delle società quotate e a controllo pubblico. Per quanto riguarda le prime, nel 2019 le donne rappresentano il 36,4% dei membri degli organi nel loro insieme: un dato superiore alla media europea, che è del 28,8%.

Nelle società a controllo pubblico, la percentuale di donne nei consigli di amministrazione è raddoppiata dal 2014 al 2019, passando dal 14,8% al 28,8%. La crescita della partecipazione femminile agli organi collegiali nel loro insieme, invece, è più lenta e graduale: nel 2014 era al 17,6% e nel 2019 ha raggiunto il 32,8%. Spicca anche il dato sui ruoli di supplenza nei collegi sindacali: le donne nel 2019 hanno rappresentato il 41,2% del totale dei componenti che ricoprono la stessa carica.

Se si guarda al Piemonte, secondo i dati forniti dal sito istituzionale, delle 16 aziende a partecipazione diretta, la percentuale media di componenti donne degli organi amministrativi è del 39,5%. Inoltre solo in due società esse ricoprono il ruolo di presidente di Cda o di amministratrice unica. Il dato di partecipazione femminile è parziale, riferendosi a un singolo organo, e sembra rispettare la quota di un terzo della legge Golfo-Mosca. Sui collegi sindacali è difficile trovare elenchi completi ed esaustivi dei componenti con i nominativi; allo stato dunque non si può avere una ricostruzione complessiva della partecipazione femminile nel panorama regionale.

Anna Marnati, consigliera di Parità della regione, non ha voluto commentare i dati sull’equilibrio di genere perché il suo mandato è appena iniziato. Monica Cerutti, ex assessora regionale per le pari opportunità dal 2014 al 2019, adotta una certa prudenza: “si è perso il monitoraggio dello stato attuale della partecipazione femminile; ho sentito di organismi ultimamente nominati, tutti al maschile”. Ad esempio, durante il suo assessorato era stata realizzate una banca dati sulle competenze al femminile: le donne avrebbero potuto inserire i curricula, “un modo per segnalare la loro disponibilità nel momento in cui ci sarebbero stati nuovi incarichi in ambito pubblico”. Questa iniziativa, con il cambio di giunta, non ha più avuto seguito.

Cerutti evidenzia che è necessario agire sul piano culturale. Anzitutto prendendo coscienza del fatto che le donne, nelle società sia pubbliche che private, sono una risorsa e non un costo: “esemplari sono le piccole aziende: spingerle ad assumere donne prevedendo incentivi e/o sgravi fiscali va bene momentaneamente, ma è sintomatico di quanto lavoro ci sia ancora da fare”.

Nella sua esperienza di assessora la difficoltà maggiore – a parte la scarsità di risorse per perseguire le azioni – è stata promuovere le pari opportunità come materia orizzontale: “è considerata a sé, manca la cultura della trasversalità. Di conseguenza è stato difficile avere voce in capitolo nella programmazione di altre materie: penso all’ambiente, all’agricoltura. Sono ambiti neutri, in cui promuovere l’equilibrio di genere non è considerato rilevante”.

Cerutti ha poi rimarcato la necessità di ulteriori misure per ridurre le disuguaglianze: ad esempio, introdurre una valutazione dell’impatto di genere ex ante ed ex post. Si tratta di uno strumento che consente di monitorare quanto e come i progetti di legge incidano sull’uguaglianza tra i sessi, sia prima che dopo la loro entrata in vigore. “Non c’è nemmeno nel piano nazionale; fare generici riferimenti alla dimensione di genere serve a poco. Spesso sono quello che chiamiamo pink washing: misure per mettersi a posto la coscienza, ma prive di efficacia”.

Ma da questo punto di vista ci sono buone notizie: l’8 marzo è stato annunciato che il servizio studi della Camera dei deputati – organo che cura approfondimenti e ricerche sulle proposte di legge di iniziativa parlamentare – avrà al suo interno una sezione che si occuperà dell’analisi di genere.

La strada da fare per l’equilibrio fra uomini e donne ai vertici aziendali è ancora lunga, se ancora servono le quote. La crescita della partecipazione femminile aumenta, anche se lentamente. Allo stato sembrano mancare politiche organiche adeguate e dotate di continuità, ma anche la promozione di una cultura costruttiva sulla parità di chance tra i due sessi. Perché avere obiettivi di carriera non è solo appannaggio maschile. E il soffitto di cristallo, prima o poi, bisognerà romperlo.