La testata del Master in Giornalismo “Giorgio Bocca” di Torino

Da una dipendenza all’altra. L’Europa nella morsa del gas

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Nonostante gli obiettivi di decarbonizzazione delineati nelle Conferenze delle Parti (Cop), diventa sempre più chiaro che l’Italia e l’Europa continueranno a dipendere dal gas almeno fino al 2050. La guerra in Ucraina ha sì ridotto la dipendenza europea da Gazprom, ma ne ha generata un’altra verso fornitori come l’Algeria – attualmente il principale fornitore per l’Italia –, il Qatar e l’Egitto.

“Nel 2022, gli italiani dipendevano dal gas russo al 40%. Oggi, la stessa percentuale di forniture arriva dall’Algeria. Dovevamo affrancarci dalla Russia e diversificare i nostri approvvigionamenti energetici, in realtà abbiamo sostituito una dipendenza con un’altra”, osserva il giornalista Giuseppe Oddo di Finanza e Potere. Secondo Andrea Greco, infatti, inviato di Repubblica, l’approvvigionamento di gas garantito da Mosca ha rappresentato a lungo per l’Europa “una sine cura“, una spesa tutto sommato accessibile. Questo ha fatto sì che “l’Europa si è fatta trovare molto impreparata dalla crisi del gas, già intuibile nel 2021. Soprattutto il governo italiano, che insieme a quello tedesco si è fatto trovare più scoperto di tutti. C’erano stati diversi segnali, che però non sono stati completamente colti e interpretati”.

Il cambiamento di strategia energetica dell’Ue

“Prima della guerra in Ucraina, erano almeno sette anni che, anche per ragioni politiche e di propaganda elettorale, l’Italia decantava la transizione energetica ed ecologica – continua Greco –. Dal 22 ottobre 2022 la risposta europea ha iniziato a prendere forma: da quel momento l’Europa ha iniziato a diversificare i suoi approvvigionamenti energetici, orientandosi in modo significativo sul gas naturale liquefatto (Gnl)”.

Così, mentre i conflitti più vicini ai confini europei, Gaza e Ucraina, continuano a spaventare il Vecchio Continente, non sono mancate aperture europee anche a Paesi con dinamiche interne proiettate al protezionismo: in primis gli Usa, seguiti dalla Turchia. Elena Gerebizza, ricercatrice di ReCommon, osserva infatti che con il lancio di Repower Eu nel marzo 2022 l’Unione Europea ha radicalmente modificato la propria politica energetica, favorendo la sicurezza energetica a scapito degli obiettivi di sostenibilità ambientale stabiliti nel 2019 dal Green Deal europeo. “C’è stato un ritorno totale al gas, accompagnato da una nuova “predilezione” per il Gnl, soprattutto da parte degli Stati Uniti”, afferma.

Le conseguenze della dipendenza dal Gnl

“All’improvviso, gli Stati Uniti sono diventati il primo fornitore di gas liquido a livello globale ed europeo – spiega la ricercatrice –. Se fino al 2022 fornivano il 23% del Gnl europeo, adesso ne forniscono circa il 49%. La situazione è estremamente complessa, perché così come prima era problematico fare affidamento sulla Russia, adesso lo è dipendere dagli Stati Uniti”.

Le implicazioni sul fronte economico-finanziario sono molteplici. “Questo spostamento non solo ha rilanciato l’estrazione di gas in contesti precedentemente considerati economicamente non sostenibili, ma ha anche portato a un boom di infrastrutture in Europa e negli Usa, destinate rispettivamente all’importazione e l’esportazione di gas liquido – continua Gerebizza -. Peraltro, il gas che importiamo dal bacino Permiano, che è uno dei punti principali di estrazione ed esportazione degli Stati Uniti attraverso il Texas e la Louisiana, è un gas associato. Si trova cioè negli stessi giacimenti da cui si estrae principalmente petrolio, motivo per cui nell’industria viene considerato uno scarto”.

Del resto, conclude l’esperta, l’interesse commerciale degli Usa verso questo tipo di gas è cresciuto a seguito di due sviluppi cruciali. “Da una parte, il recente riconoscimento del Gnl come risorsa chiave a livello globale. Dall’altra, quindi, l’instaurazione di una solida partnership con l’Unione Europea, che nel 2022 si è impegnata ad aumentare le importazioni di gas liquido dagli Usa di 15 miliardi di metri cubi, poi incrementati a 50 fino al 2030″.

Le ripercussioni sociali e ambientali

Molteplici anche le criticità sociali ed ambientali. “Il modello estrattivo si basa su tecniche estremamente invasive, tra cui quella del fracking – spiega Gerebizza –. L’intera zona del bacino Permiano è diventata un punto di accelerazione dei cambiamenti climatici e un nuovo hotspot di emissioni, un reticolo di pozzi e impianti che inquinano brutalmente l’ambiente, il suolo, l’acqua e l’aria”.

Da qui l’esacerbazione di tutte le ingiustizie sociali. “Nella zona del Golfo di Corpus Christi negli Stati Uniti, per esempio, la costruzione di nuovi terminal di liquefazione ha portato all’espulsione di molte comunità, soprattutto latine ma non solo – continua l’esperta –. Queste vivono in quartieri estremamente poveri e privi di servizi e non hanno voce in capitolo. Vengono letteralmente sacrificate in nome della nuova espansione del modello fossile che, di fatto, serve i bisogni dell’Europa”.

Il ruolo di Eni e Snam nell’economia energetica italiana

Soprattutto negli ultimi due anni, Eni e Snam hanno svolto un ruolo centrale nella riconfigurazione del paesaggio energetico italiano. La prima è infatti “tornata a investire negli idrocarburi – spiega Greco –, motivo per cui il piano che ha presentato nel 2020 e annualmente aggiornato, che punta alla neutralità carbonica e all’obiettivo emissioni zero entro il 2050, è vero più a parole che nei fatti”. Per quanto riguarda la Snam, invece, “il governo l’ha incaricata di svolgere un forte ruolo di supplenza e sostituzione politico-industriale, occupandosi della gestione degli impianti di sbocco del gas liquido”, continua il giornalista.

Un punto cruciale è rappresentato dall’acquisizione da parte di Snam di infrastrutture strategiche in Israele ed Egitto. “Si tratta di una triangolazione che ha consentito all’Ue di garantirsi approvvigionamenti di gas da entrambi i Paesi, ma che ha anche avviato l’ennesima relazione complessa, stravolgendo gli equilibri – spiega Gerebizza -. Da quando ha iniziato a esportare gas dal giacimento del Leviathan, infatti, Israele ha generato notevoli entrate, e possiamo solo immaginare come queste siano utilizzate. Basti vedere i dati di Ispi del 2023, che sottolineano un export israeliano di 10miliardi di metri cubi di gas, la maggior parte dei quali verso l’Unione Europea”. D’altro canto, conclude la ricercatrice, “è evidente che questo rapporto inficia notevolmente la capacità dell’Europa di agire in un determinato modo nel conflitto in corso in Medio-Oriente, nonché nel bombardamento a Gaza, per il quale si fa ancora fatica a dire che il cessate il fuoco deve arrivare”.

“Una polveriera potenziale

In questo contesto, il Mediterraneo diventa epicentro di tensioni crescenti. Da una parte, Paesi come Turchia, Egitto e Israele intensificano le loro attività estrattive. Dall’altra, Stati come la Libia, la Grecia e l’Algeria, con i suoi storici legami con la Russia e le attuali tensioni con il Marocco, aggiungono ulteriori strati di complessità alla situazione. Così, “mentre le guerre del XX secolo sono state combattute per il petrolio, quelle del XXI avranno come oggetto il gas. Se a tutto ciò si somma poi la crisi in Medio Oriente – conclude Oddo –, il Mediterraneo rischia davvero di diventare una polveriera potenziale”.