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Alberto Negri e le relazioni mediterranee: “L’Italia è sempre più debole”

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Libia, Turchia, Italia. Nell’ultimo mese, la politica mediterranea ha visto alcune novità. A inizio aprile la Libia è la destinazione della prima visita estera ufficiale del presidente del Consiglio italiano Mario Draghi. Pochi giorni dopo, ad Ankara, scoppia il “Sofagate”: la presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen viene lasciata senza sedia davanti al presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Due giorni dopo, Mario Draghi, rispondendo a una domanda in conferenza stampa, lo definisce “un dittatore di cui si ha bisogno”. E Erdogan, dopo pochi giorni, riceve nel suo Paese le più alte cariche libiche: conferma il sostegno militare al Paese e stringe nuovi accordi politici. 

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Alberto Negri è un giornalista e inviato di guerra che ha seguito i maggiori conflitti degli ultimi trent’anni in Medio Oriente e Africa. E legge i fatti dell’ultimo mese senza illusioni: in Libia non è cambiato nulla, la Turchia continua ad essere padrona della situazione e le mosse di Draghi non hanno spostato alcun equilibrio.

Gli eventi dell’ultimo mese hanno nuovamente messo al centro dei riflettori la relazione tra Italia e Libia. Quale è, oggi, il nostro peso nel Paese? 

L’Italia ha come priorità la Libia dal secondo dopoguerra, ma dal 2011 ha perso ogni vero ruolo. In quell’anno ci siamo uniti ai bombardamenti contro Gheddafi, un leader che soltanto sei mesi prima avevamo ricevuto a Roma in pompa magna. C’è stato poi un altro errore: nel 2019, quando il governo libico di Fayez al-Sarraj ha chiesto aiuto a Italia, Gran Bretagna e Stati Uniti contro il generale Haftar, l’Italia glielo ha rifiutato. Così la Libia ha aperto le porte alla Turchia, che ha vinto la guerra contro Haftar e contro i mercenari russi e gli altri alleati. Erdogan difficilmente se ne andrà dal Paese.  

Nel rapporto Italia-Libia, quindi, entra anche la Turchia. A inizio aprile il presidente del Consiglio italiano ha definito Erdogan “un dittatore”… 

Draghi, nella sua prima visita in Libia, era in realtà ospite di Erdogan: è grazie a lui che è potuto andare lì, per la sua vittoria su Haftar. Quando lo chiama “dittatore”, con una mossa che nessun leader europeo aveva mai fatto prima, si dimentica del fatto che i rapporti di forza sul terreno sono nettamente a favore della Turchia. Poi l’Italia ha un’influenza economica, legata soprattutto all’estrazione del petrolio e del gas, in particolare con il gasdotto “Greenstream” che lega come un cordone ombelicale la Libia e l’Italia. Ma il suo ruolo nel Mediterraneo è sempre più debole. 

Erdogan è un “dittatore” che fa comodo? 

Certo, è comodo anche agli Stati Uniti. Si è opposto alla Russia in Siria, in Azerbaijan e in Libia. Ma è anche un leader che fa gli interessi del suo Paese: è membro della Nato ma compra, ad esempio, il gas e gli antimissili S-400 dalla Russia. È un autocrate che è stato eletto, che ha messo un sacco di gente in galera, che ha massacrato i curdi. Ma attenzione: li ha massacrati per colpa degli americani, per il ritiro che decise Trump nell’ottobre 2019 dal nord della Siria. La dimensione autocratica di Erdogan, che non ci piace, è in realtà funzionale al ruolo che gli abbiamo chiesto di interpretare. Che prevede, ad esempio, di tenere oltre 3 milioni di profughi siriani nel suo Paese. Da Bruxelles viene profumatamente pagato per questo. 

Russia, Stati Uniti. La Libia si può considerare un nuovo fronte di guerra fredda? 

Sì, non c’è dubbio. La nuova amministrazione americana teme che Erdogan e Putin si possano accordare, come già successo in Siria negli anni recenti. Le missioni italiane in Libia sono sostenute dagli Stati Uniti, che vorrebbero un ruolo italiano maggiore nel Paese. Ma noi non abbiamo nessuna leva militare per farlo. 

Lei è stato per tanti anni inviato di guerra all’estero. Con le nuove tecnologie, e con internet in particolare, si ha l’impressione di poter conoscere con un click ogni parte del mondo. Quale è il valore di avere giornalisti inviati sul campo?

Senza andare sul posto non si conoscono le sue strutture politiche, sociali, economiche e antropologiche. Diventa difficile capire che cosa succede e si finisce per dire delle grandi sciocchezze, come succede sui nostri giornali. Sui luoghi bisogna metterci la suola delle scarpe: internet può essere un aiuto ma non può sostituire la presenza diretta sul territorio. Non si può pensare di conoscere il mondo virtualmente.

Quali sono i mali dell’informazione sugli esteri, oggi?

Ci sono sempre più tagli: diminuiscono gli investimenti sulle risorse umane, sui giornalisti, sui viaggi. Ma così tagliamo la nostra possibilità di avere dei contatti veri con la realtà. E la domanda fondamentale è: interessa ancora avere una conoscenza reale dei territori e dei loro problemi? Interessa ancora ai nostri lettori, agli editori, all’opinione pubblica? La nostra informazione si è impoverita: si ignorano i fatti e si fa propaganda. È molto preoccupante per il nostro Paese: un’informazione arretrata indica che l’intero Paese è arretrato. 

E i giornalisti? C’è una responsabilità che li investe personalmente e che può incidere sulla qualità dell’informazione?

Il nostro mestiere è una lotta che in tutti i momenti incide sulla nostra coscienza. Ma chi vuole davvero combattere fa parte di una minoranza. Una minoranza militante. Che ha una soddisfazione: battersi continuamente contro il conformismo, il male peggiore del nostro mestiere e del nostro Paese. Poi sono le minoranze a fare le rivoluzioni.

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