Erdogan e la svolta presidenzialista. Come cambia la Turchia dopo la riforma costituzionale

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Il 13 aprile oltre 55 milioni di elettori turchi sono stati chiamati alle urne. Il referendum era stato indetto per confermare la riforma costituzionale, approvata dal Parlamento il 21 gennaio, che trasformava la Turchia in una repubblica presidenziale. Con un risicato 51,41% i SÌ hanno prevalso sui NO, realizzando quello che, da anni, era il sogno di Recep Tayyip Erdogan.

In verde le province turche dove ha prevalso il SI; in rosso quelle dove ha prevalso il NO

I 18 emendamenti apportati alla Carta costituzionale andavano tutti nella stessa direzione, ovvero conferire potere al Presidente della Repubblica. Erdogan è riuscito nell’impresa iniziata nel 2010, quando con un’altra riforma costituzionale aveva fatto sì che il Capo di Stato venisse eletto direttamente dai cittadini. Da oggi però, con l’abolizione della figura del Primo Ministro e il ridimensionamento del ruolo del Parlamento, si apre un nuovo corso per la Repubblica turca.

Dal 2019, anno in cui la riforma sarà efficace, al Presidente Erdogan verranno trasferiti tutti quei poteri fino a oggi riservati al Premier, ovvero: proporre le leggi; emanare decreti legislativi (escluse materie come le libertà fondamentali e i diritti politici e civili); chiedere la pronuncia della Corte Costituzionale sui dubbi di costituzionalità; rimettere i disegni di legge al Parlamento e chiederne la revisione.

In aggiunta, il Capo di Stato avrà la possibilità di sospendere o limitare le libertà fondamentali e i diritti politici, laddove vi sia uno “stato di emergenza”. Condizione, quest’ultima, in cui la Turchia versa dal 15 luglio 2016, giorno del fallito colpo di stato. Senza contare il venir meno del giuramento d’imparzialità, atto dovuto dal Presidente della Repubblica per garantire la sua equidistanza dalle forze politiche. Con la riforma costituzionale appena approvata Erdogan potrà continuare ad avere rapporti col partito d’appartenenza, quell’Akp che vanta 317 seggi in parlamento.

Oltre a quelli appena citati, verrà implementato anche il potere delle nomine. Il Capo di Stato potrà nominare: ministri; vertici dei servizi segreti e dell’esercito; 12 giudici della Corte costituzionale; rettori universitari; dirigenti della pubblica amministrazione e uno o più vicepresidenti.

Cosa succederà invece al Parlamento?

La Grande Assemblea Nazionale Turca è stata ridimensionata e indebolita a colpi di emendamenti. Aumenteranno i deputati (da 550 a 600) ma diminuiranno i poteri a essi conferiti. Uno su tutti: la mozione di sfiducia. L’atto tipico con cui il potere legislativo poteva controllare il potere esecutivo è stato abolito dalla riforma. Certo, resta la procedura di impeachment, ma la sua complessità ne rende difficile l’utilizzo. Solo per avviare la procedura sono richieste le firme di 301 parlamentari (50%+1); dopodiché servono 360 voti favorevoli per creare la commissione d’inchiesta, la quale valuterà se inviare o meno il giudizio alla Corte Suprema; infine 400 deputati dovranno votare a favore e autorizzare la prosecuzione del processo in tribunale. Ciò che rimane di competenza parlamentare, oltre a votare le proposte di legge, è: chiedere informazioni; sollecitare le risposte da parte dei singoli ministri con domande poste per iscritto; indire riunioni per discutere l’operato di Governo e Presidente.

Lasciando da parte le paure sulla tenuta democratica della Turchia, ciò che spaventa è la possibile longevità della reggenza Erdogan. La legge prevede due mandati da cinque anni ciascuno per il Presidente della Repubblica. Questo vuol dire che, esauriti i 10 anni, non è prevista la possibilità di ricandidarsi alla guida del Paese. Erdogan è stato eletto nel 2014, il che vuol dire scadenza del primo mandato nel 2019 e possibilità di ricandidarsi fino al 2024. Alcuni interpreti della riforma paventano l’eventualità di un azzeramento del conteggio dei mandati, proprio a causa dell’entrata in vigore della riforma nel 2019. Se ciò dovesse accadere, per il fondatore dell’Akp significherebbe concorrere per altri due mandati e, in caso di vittoria, 10 anni di presidenza. Fino al 2029.

PASQUALE MASSIMO