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Egitto: Alaa, Patrick e Giulio. Petrillo: “Perché raccontare il regime di Al-Sisi non è una cosa semplice”

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In Egitto i prigionieri politici non lottano per liberare se stessi. Nelle prigioni del regime di Al-Sisi ci sono detenuti che cercano di fare luce su violazioni sistematiche dei diritti umani. È il caso di Alaa Abd el-Fattah, arrestato il 20 dicembre 2021 con l’accusa di aver diffuso notizie false. “Resistiamo, ma alla fine il corpo è mortale”, avrebbe detto durante la visita in carcere di sua sorella Mona. Alaa è in sciopero della fame da più di un mese: “Non preoccuparti, sto bene adesso ma bisogna che guardiamo le cose per quelle che sono: sono in sciopero della fame e alla mercé di persone che possono farmi del male”. A riportarne le parole è Sanaa Seif, sorella di Alaa e Mona.

Marina Petrillo, giornalista e profonda conoscitrice dell’Egitto, ne ha ripreso il contenuto sui suoi profili social. Di quel Paese, legato all’Italia da rapporti commerciali, Petrillo ha parlato al Festival internazionale del giornalismo di Perugia dove l’abbiamo incontrata a inizio aprile. “C’è bisogno di scavare per spiegare l’Egitto”, ci ha detto provando a mettere in fila i motivi per cui i media italiani, ma non solo, hanno difficoltà di approfondire le criticità di un Paese di cui raccontano solo singoli casi come quello di Giulio Regeni e di Patrick Zaki.

Intervista alla giornalista Marina Petrillo

In Egitto sono migliaia i prigionieri politici in attesa di un processo. Si stima che siano più di 60mila le persone detenute. Pochi giorni fa il regime di Al-Sisi ne ha liberate 41, ma senza far cadere le accuse a loro carico. Proprio come è accaduto per Patrick Zaki, lo studente dell’Università di Bologna per il quale è stata fissata al 21 giugno la data dell’udienza del suo processo.  

Il punto è che dietro ogni detenuto si cela un Paese del quale si racconta troppo poco. Indagare un sistema così complesso, che fa della segretezza il suo tratto distintivo, era complicato già prima del golpe del 2013. Adesso, però, lo è ancor di più: “Alcune forme di repressione che sotto Mubarak erano note ma informali, adesso sono formalizzate per legge”, la riflessione di Marina Petrillo. “Questo significa che diventa pericoloso parlare e anche fare giornalismo. Il fatto che nella società egiziana non esista una stampa locale davvero libera, comporta che i media italiani trovino informazioni tramite agenzie di stato o testate di regime”.

Intervista alla giornalista Marina Petrillo

La conseguenza di tutto questo è che l’attenzione dei media e delle organizzazioni non governative si concentri sulla liberazione di singoli prigionieri, tralasciando il contesto politico in cui si consuma la loro detenzione. È quella che Alaa Abd el-Fattah definisce campagna dei panda, di cui lui stesso è parte: “A partire dagli anni ’80 – ha spiegato Marina Petrillo – le Ong hanno isolato i diritti umani dalla politica producendo l’effetto per il quale ci sono campagne di grande successo per la liberazione di singoli detenuti che però non incidono in alcun modo sul piano politico. Quindi si salvano i panda, ma non si salva l’ambiente”. Di panda ce ne sono stati molti in questi anni: “In Egitto ci sono tre o quattro Giulio Regeni al giorno – ha concluso Petrillo –. Se fossimo stati più attenti e avessimo raccontato di più quel sistema, Giulio non sarebbe morto. Questa è una cosa che non vuole ammettere nessuno, ma è la verità”.

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