A quattro giorni dalla chiusura Roberto Mezzalama, board member del Politecnico di Torino, già presidente del Comitato Torino Respira e autore del saggio Il clima che cambia l’Italia commenta l’esito della Conferenza internazionale sul clima di Glasgow invitando a guardare, innanzitutto, a cosa si fa in casa nostra. E mette il dito nella piaga: il Piemonte e Torino hanno ancora parecchia strada da fare per allinearsi agli obiettivi della legge europea sul clima. Eppure i prossimi mesi saranno cruciali per raggiungere i risultati di sostenibilità delineati dall’Accordo di Parigi e confermati dal vertice di Glasgow.
Ieri, con un post sul suo profilo Instagram, l’assessore alle politiche ambientali della Regione Piemonte, Matteo Marnati, ha enfatizzato la narrazione secondo cui i limiti evidenti dell’accordo raggiunto alla Cop26 di Glasgow sarebbero da imputare, in massima parte, alle pretese di India, Cina e Stati Uniti. Marnati ha anche criticato Greta Thunberg che, a sua detta, imputa ogni responsabilità all’Unione Europea. Cosa ne pensa?
Penso che Marnati, essendosi distinto in questi primi anni di assessorato per l’inefficacia delle sue azioni, ha bisogno di buttare la palla in tribuna. Un cittadino indiano, oggi, emette 1,8 tonnellate di Co2, un cinese 7,4, uno piemontese più di 9. Ciò significa che, sebbene ognuno debba puntare a azzerare le proprie emissioni entro il 2050, da parte nostra c’è bisogno di fare uno sforzo in più. Il cambiamento climatico è un problema globale e ognuno deve fare la sua parte per risolverlo. Il dovere di Marnati è di spiegare ai piemontesi quale è il suo piano per ridurre le emissioni del Piemonte del 55% entro il 2030 e del 100% entro il 2050.
Fino a poco tempo fa l’Amministrazione torinese non aveva un obiettivo generale relativo alla valutazione della vulnerabilità e ai rischi associati al cambiamento climatico. Come spiega questi ritardi?
Torino ha realizzato un piano sull’adattamento ai cambiamenti climatici che non è esattamente un “piano”, dato che non contiene obiettivi precisi e neppure una descrizione delle risorse messe a disposizione per raggiungere determinati risultati. Il Comune di Torino, storicamente, ha sottovalutato il problema della tutela della qualità dell’aria, che non è mai entrata nell’agenda politica dell’amministrazione torinese. L’amministrazione Appendino ha avuto sicuramente buone intenzioni, ma non ha fatto abbastanza.
La strategia regionale di riduzione dei cambiamenti climatici indica un obiettivo di riduzione delle emissioni, al 2050, del 18%. È troppo poco ambizioso?
In Piemonte è stato realizzato un piano di miglioramento della qualità dell’aria parecchio carente, a cui è stata appiccicata all’ultimo momento una valutazione degli effetti sulla riduzione del gas a effetto serra. È in corso una discussione relativa a una strategia regionale per lo sviluppo sostenibile, ma tutti questi propositi non sono allineati alla strategia europea sul green deal e alla legge europea sul clima che è in corso di approvazione. La raccomandazione del Parlamento Europeo evidenzia l’obiettivo della riduzione delle emissioni al meno 55% entro il 2030. La Regione non ha ancora allineato i suoi strumenti di pianificazione a questi obiettivi. Un risvolto ancora più grave se pensiamo che la legge europea sul clima non è una direttiva, ma un regolamento, e di conseguenza si applica direttamente agli stati membri.
Nel suo libro racconta come chi racconta le emergenze estreme parla spesso di “maltempo”, e non di emergenza climatica. Come spiega questa reticenza?
Prima di tutto credo che, nella stragrande maggioranza dei casi, ci sia una conoscenza limitata del problema: non so quanti di coloro che oggi parlano di clima abbiano letto qualche libro sulla questione o si tengano informati rispetto agli aspetti scientifici e culturali legati al cambiamento climatico. Nulla di strano: è un tema complesso che richiede grande curiosità e studio costante. Il giornalismo scientifico in Italia versa in uno stato pessimo: viviamo in uno dei paesi meno istruiti in Europa, e il sistema dell’informazione ha dovuto, giocoforza, adeguarsi a chi legge. Chi parla quotidianamente a questa audience tende a semplificare le cose, a portarle a un livello bassissimo, forse sottovalutando anche l’intelligenza di chi legge. L’altro grande problema è che le questioni scientifiche vengono spesso trattate come questioni politiche. Quando si parla di climate change non si può rappresentare una perfetta difformità di opinioni: per avere una reale misura delle forze in campo, bisognerebbe invitare 98 esperti che la pensano in un certo modo e 2 che negano l’origine antropica del cambiamento climatico.