And Louise holds a handful of rain, temptin’ you to defy it
[…]
She’s delicate and seems like the mirror
But she just makes it all too concise and too clear
That Johanna’s not here
The ghost of ‘lectricity howls in the bones of her face
[…]
Louise porta “un pugno di pioggia nella mano”, mentre Johanna aleggia come un fantasma. Anzi, “il fantasma dell’elettricità grida dalle ossa del suo viso”. Due donne oniriche, forse irreali, tra cui chi canta non sa decidersi. Visions of Johanna è uno dei testi più enigmatici che Bob Dylan abbia mai scritto. Nel titolo ci sono due romanzi sperimentali di Jack Kerouac, Visions of Cody e Visions of Gerard. Tra le righe di questo brano, tra i suoi significati nascosti, c’è molto di quel Dylan visionario che tanto ci appassiona e che oggi, 24 maggio 2021, compie ottant’anni. Cantautore, poeta, scrittore e addirittura pittore, perché la musica è un quadro in cui fluttuare nella sospensione dello spazio-tempo. Ed è arte, in generale, tutto ciò che trasporta il fruitore in una realtà “altra”, che nasce dal cortocircuito tra materiale e immateriale.
Nasce a Duluth, in Minnesota, nel 1941, e a vent’anni ripudia il suo vero nome, Robert Allen Zimmerman, a favore dello pseudonimo Bob Dylan. La leggenda vuole che si tratti di un omaggio al poeta gallese Dylan Thomas, cui il cantautore si avvicina nel periodo degli studi, condotti da autodidatta. Lo racconta lui stesso nel primo volume dell’autobiografia Chronicles: “Cercavo di darmi quell’istruzione che non avevo mai avuto […] Più che altro leggevo libri di poesia, Byron e Shelley e Longfellow e Poe”. Lo affascina il suono delle parole, “il mondo del juke-box all’idrogeno” di Allen Ginsberg. Con la Beat Generation intrattiene un dialogo serrato, viscerale, che inizia dagli anni della formazione newyorkese e mescola le note musicali ai versi di Dante e Leopardi, ma anche di William Blake e T.S. Elliot.
Quella che ha realizzato è un’opera-mondo impossibile da catalogare o circoscrivere in una definizione univoca, tant’è vero che lui stesso, riprendendo il Whitman di Foglie d’erba, si auto-definisce come “contenitore di moltitudini”, coacervo di identità e contraddizioni. I contain multitudes è uno dei brani di punta di Rough and Rowdy Ways, il suo trentanovesimo album, uscito nell’aprile 2020. “Come chiunque nella vita tocchi degli estremi, Bob Dylan è uno che fa discutere”, racconta FiloQ, alias Filippo Quaglia, produttore e dj di origine genovese, legato ai linguaggi della musica elettronica. “In particolare, venne molto criticato quando salì sul palco del Newport Folk Festival con una chitarra elettrica, avviando una rivoluzione che gli costò accuse di tradimento da parte di chi lo riteneva il menestrello del folk”. Era la sera del 25 luglio 1965 e un Bob Dylan in giacca di pelle dava inizio alla sua svolta rock. La canzone simbolo di questo momento di passaggio è Subterranean homesick blues, la preferita di FiloQ perché “contiene timbri elettrici e può essere considerata uno dei primi esperimenti di rap”. Anche questo testo fu criticato: era la prima volta che Dylan offriva una visione nichilista dell’America, mettendo in luce le storture di una democrazia ben lontana dalla perfezione.
Punto di riferimento imprescindibile per la cultura musicale di tutti, “le canzoni di Bob Dylan per me sono state il sottofondo di un confronto generazionale”, aggiunge FiloQ. “Ho imparato a conoscerlo fin da piccolo, durante i lunghi viaggi in auto in giro per l’Europa. Mio padre è un grandissimo fan, non si perde un disco. Per questo lo ritengo un punto di riferimento che ha dato un’impronta decisiva alla mia carriera”. L’interesse di Filippo Quaglia per il cantautorato italiano e internazionale è così spiccato che si è concretizzato nell’attività di produzione dell’ultimo album di Federico Sirianni, autore genovese ma che ama definirsi “adottato da Torino”. “Ogni volta che mi metto a riascoltarlo trovo qualcosa che non avevo colto prima, è sempre una novità”, dice, individuando in Bob Dylan “una sorta di marziano, capace di vivere almeno una dozzina di vite in una”.
“La sua capacità di spaziare tra argomenti e possibilità mi fa credere che a buon titolo abbia vinto il Nobel per la letteratura nel 2016”, continua Sirianni. Una vittoria molto discussa da quella schiera della letteratura – la più intransigente – che abbraccia l’antico adagio secondo cui la musica e i testi siano due sfere espressive separate. “Penso che Bob Dylan sia un poeta e un letterato vero e proprio, la complessità narrativa della sua opera è sotto gli occhi di tutti”. Le canzoni di riferimento per il bagaglio culturale di Sirianni non sono le più famose: “Ne cito due in particolare, che appartengono a un periodo abbastanza recente e sono Ring them bells (1989, nell’album Oh Mercy), e Not dark yet (1997). Quest’ultima appartiene all’album Time out of mind ed è una sorta di confessione del cantautore di fronte alla consapevolezza della vecchiaia che arriva”.
Ne emergeva un Dylan stanco e un po’ amareggiato, affaticato dal tempo che scorre e da un passato vissuto che diventa più lungo del futuro da esperire. Ma ventiquattro anni dopo quel disco e a otto decadi dalla sua nascita, Bob Dylan continua a meravigliare i visionari di tutte le età.