“E se questi 130 giornalisti fossero stati israeliani o americani? La loro vita sarebbe stata più preziosa. Tutto ciò è preoccupante per il mondo e mi rende estremante triste”. Shuruq As’ad è la portavoce di Palestinian Journalist Syndacate e si rivolge a Phil Chetwynd, direttore di Agence France-Press, affermando. “Avrei potuto essere io, avresti potuto essere tu. 130 giornalisti palestinesi hanno perso la vita nel conflitto che ha portato alla morte di 30mila civili”. Nella Sala del Dottorato, il giornalismo viene affrontato come una narrazione che non riesce a raccontare in maniera completa quello che sta accadendo a Gaza. Nemmeno la morte dei suoi addetti ai lavori.
“I miei giornalisti ogni singolo giorno sono negli obitori, negli ospedali e nelle strade di Gaza per documentare ogni evento e per raccontare le storie delle vittime civili – dice Phil Chetwynd, direttore di Agence France Press -. Ovviamente esiste una complessità che crea difficoltà. Il conflitto a Gaza è il risultato di un mondo che preme pulsanti. In questa situazione si mischia la storia del Medio Oriente e quella Occidentale, un mix complesso. È il risultato di 75 anni di occupazione e 18 anni di assedio a Gaza”. Ed è proprio qui il punto. “Nessuno racconta ciò che è avvenuto prima del 7 ottobre – ribatte Shuruq As’ad -, in Palestina le tensioni sono iniziate nel 1948”.
Un dibattito che prende vita durante l’evento “Gaza. Avevamo bisogno di voi: dove eravate?”, che si è svolto alla Sala del Dottorato presentato da Doja Daoud, di Committee to Protect journalists. Presente in video collegamento anche Dena Takrur di Al Jazeera, emittente attaccata ed etichettata dai funzionari israeliani. Di fatto l’emittente cerca di coprire il vuoto informativo che c’è stato dall’inizio della guerra. Ovvero la mancanza di un giornalismo di reportage sul territorio di Gaza. Una lacuna che è stata colmata dal racconto sui social, un fenomeno che ha fatto emergere una difficoltà tra i fatti del conflitto e la narrazione giornalistica.
Anche di questo parla Doja Daoud. Al Jazeera è tra le poche che possiede giornalisti sul campo. “Direi che sono molto orgogliosa di lavorare per Al Jazeera – spiega – Un’organizzazione che ha costantemente riferito su Israele e su Palestina, facendo riferimento con il contesto precedente al 7 ottobre. E quando è avvenuto l’attentato abbiamo riferito anche su quegli eventi. Non so se qualcuno stia negando ciò che è accaduto e la tragedia subita dai civili israeliani quel giorno, ma eravamo attrezzati per fornire anche un contesto più ampio su Gaza e sull’occupazione israeliana. E sui 75 anni di questo conflitto”.
Un lavoro che ancora continua, con tutte le difficoltà della situazione. “Copriamo questa storia da tutte le angolazioni dai nostri vari canali da Al Jazeera Arabic, Al Jazeera English, Al Jazeera Balkans. Cerchiamo di dare voce a chi non ha voce, raccontando le storie umane e puntando continuamente i riflettori su questo genocidio in corso”. Questa la direzione di Al Jazeera, che dovrebbe essere seguita in maniera corale. Almeno secondo la portavoce del sindacato dei giornalisti palestinesi, Shuruq As’ad. Accusa i media occidentali di non restituire un quadro completo, affidabile e corretto. Fa appello a una informazione sempre più diretta per permettere una comprensione completa di quei fatti e avvenimenti che stanno dividendo il mondo.