La testata del Master in Giornalismo “Giorgio Bocca” di Torino

Yulia: “Devo lasciare l’Italia, ma in Russia non voglio tornarci”

condividi

«Probabilmente mi sposterò in Messico. La lingua è semplice da imparare e potrei stare lì almeno per sei mesi. Ovunque è meglio che in Russia». Le speranze di rimanere in Italia sono quasi svanite e Yulia ha dovuto ideare in fretta un piano B. Poco meno di un anno fa aveva lasciato San Pietroburgo per trasferirsi a Roma, prendendo parte a un progetto di volontariato europeo. Al momento lavora in una piccola web radio, dove produce podcast e programmi radiofonici, ma, tra poco più di una settimana, sarà costretta a lasciare l’Italia. La scadenza del suo permesso di soggiorno diventa sempre più vicina e cade, infelicemente, in uno dei momenti peggiori nella storia recente del suo Paese, tra instabilità economica e limitazioni alla libertà d’espressione.

Quasi nessuno in Russia, racconta, credeva davvero che ci sarebbe stata una guerra. «Quando gli Americani hanno iniziato a parlare di un conflitto imminente pensavamo si sbagliassero, ma eravamo noi a non aver capito». Così, con un conto alla rovescia già avviato, Yulia si ritrova a doversi muovere incerta tra imprecisate questioni burocratiche, nel tentativo di prolungare quanto possibile il periodo di permanenza in Italia. Il suo permesso per volontariato, a differenza di quelli rilasciati per motivi di lavoro o studio, non può avere durata superiore a un anno. Si tratta di una condizione poco comune, che non riguarda nessuno dei concittadini con cui ha tentato di mettersi in contatto e che le rende ancora più complicato capire quale sia l’iter da seguire.

Quel che è certo, al momento, è che la richiesta di protezione internazionale all’estero non rappresenta un’opzione percorribile, dato che la Russia non ha ancora dichiarato ufficialmente lo stato di guerra. «Da quanto ho capito, l’unica possibilità che ho è di avviare una procedura per ottenere un nuovo visto, lavorativo o turistico». Nel pacchetto di sanzioni applicate dall’Unione Europea, però, rientra anche la parziale sospensione degli accordi che agevolavano il rilascio dei visti ai cittadini russi. La conseguenza è una dilatazione dei tempi di attesa per l’approvazione del nuovo permesso, durante i quali Yulia sarebbe costretta a lasciare Roma.

I viaggi verso la Russia sono più problematici del solito, ma non impossibili: la decisione del Cremlino di bloccare i voli provenienti dall’Italia – come risposta alla chiusura dello spazio aereo dell’Unione Europea – rende necessario fare scalo altrove. L’ambasciata russa in Italia fornisce assistenza a chiunque decida di partire, ma Yulia non ha intenzione di fare ritorno in patria. A preoccuparla non è tanto un attacco esterno alla Federazione Russa – un pericolo che le sembra, ad oggi, poco concreto – ma le repressioni interne al Paese. Dall’entrata in vigore della legge che punisce la diffusione di “fake” news, diverse testate giornalistiche, tra media indipendenti del territorio o finanziati dagli Stati Uniti, stanno progressivamente chiudendo i battenti, con severe conseguenze su una libertà di stampa già compromessa. Dal blocco di Facebook e Twitter, poi, informare e informarsi è diventato quasi impossibile. Yulia, che dall’Italia tenta di far conoscere ad amici e familiari le realtà della guerra, non è disposta a rinunciare a quello che in Russia sembra essere ormai un privilegio. «Voglio aiutare in qualsiasi modo le proteste, ma tornando a casa diventerebbe molto più pericoloso farlo. Come cittadina avrei solo due opzioni: tacere o subire ripercussioni per le mie scelte». Dallo scoppio del conflitto, – secondo i dati dell’organizzazione indipendente OVD-Info – sono oltre 15mila i manifestanti arrestati nel Paese per aver partecipato a manifestazioni pacifiste, vittime di una repressione che colpisce ogni pubblica forma di dissenso.

Con stampa e cittadini imbavagliati, la guerra d’informazione viene vinta dalla propaganda. «È il motivo per cui tanti in Russia ritengono che l’invasione sia legittima. L’effetto della propaganda è simile a quello di una setta». Su questo campo di battaglia, così come avviene in quello reale, nemmeno i bambini vengono risparmiati, diventando target ideali della retorica ufficiale: «Nelle scuole hanno iniziato a organizzare delle lezioni per spiegare lo scopo di questa operazione militare. Ho un fratello di undici anni e sono molto preoccupata per lui. Nel suo istituto non è ancora accaduto, ma è solo questione di tempo: presto arriverà qualcuno a raccontargli di come la guerra sia giusta e inevitabile».