Whistleblowing e Open Data: “chi controlla i controllori?”

Se i giornalisti sono i cani da guardia del potere, le misure anticorruzione nelle amministrazioni pubbliche – fra le quali il whistleblowing e gli open data – possono essere dei validi alleati. Il whistleblower può essere una fonte preziosa per un’inchiesta, in quanto denuncia pratiche di uso distorto delle funzioni e dei soldi pubblici. Gli open data, intesi come dati resi accessibili, comprensibili e analizzabili, consentono al mondo dell’informazione di rendere conto al potere del suo operato, favorendo uno sviluppo sano dell’opinione pubblica.

Per questa ragione è essenziale monitorare i governi nazionali sull’avanzamento delle normative volte ad arginare le pratiche corruttive. Fra le realtà che se ne occupano c’è Woodie project, finanziato dall’Unione europea, che coinvolge un team di ricercatori universitari e, in Italia, vede coinvolto l’ateneo di Torino. Il progetto ha analizzato l’impatto degli open data e della legislazione sul whistleblowing in sette stati membri: Italia, Austria, Slovenia, Estonia, Romania, Francia e Irlanda. I rispettivi governi trattano queste materie in modo molto diverso; l’obiettivo è la condivisione di conoscenze e buone pratiche per migliorare l’efficacia delle misure o, semplicemente, promuoverne l’introduzione. Il 7 e il 14 aprile i ricercatori hanno presentato online i risultati del monitoraggio relativi al 2020.

Il whistleblowing: a che punto è l’Italia

Il termine whistleblower, preso dall’inglese americano e traducibile letteralmente con “suonatore di fischietto”, identifica la pratica di colui che riporta informazioni su violazioni apprese nel proprio ambiente di lavoro. L’Italia è uno dei pochi paesi, insieme all’Irlanda e alla Romania, ad avere una legge a tutela. L’articolo 1 comma 51 della legge 190/2012 (nota anche come “Legge Severino”) ha regolamentato per la prima volta la figura del whistleblower, con particolare riferimento al dipendente pubblico che segnala illeciti. In essa si dice che quest’ultimo “non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto a una misura discriminatoria”.

Negli anni successivi la normativa è stata implementata e uno degli elementi di discussione era la possibilità d’introdurre una ricompensa per i “suonatori di fischietto” al fine di incentivarli a denunciare. Nel dicembre 2017 è stata approvata una legge che ha esteso la normativa al settore delle aziende private e rafforzato le tutele contro le ritorsioni (per esempio, il licenziamento).

Nell’autunno del 2019 il Consiglio dell’Unione Europea ha adottato una direttiva ufficiale finalizzata alla protezione dei segnalatori, che deve essere messa in atto tramite leggi nazionali apposite. Gli stati membri dell’Unione hanno l’obbligo di produrre una legislazione specifica sul tema entro la fine del 2021.

Il whistleblowing come fonte d’inchiesta

La pratica è diventata famosa in ambito giornalistico (si pensi a casi eclatanti come il Watergate, Wikileaks o la vicenda Snowden), ma in realtà può riferirsi a tutte le persone che denuncino attività illecite all’interno del contesto di lavoro ed è riconosciuto come uno strumento importante per combattere fenomeni come la corruzione. Il problema che ostacola questa pratica è la difficoltà delle persone nel segnalare tali fatti sul luogo di lavoro, che comporterebbe rischi per la carriera se non addirittura la perdita del posto.

La pratica del whistleblowing è ancora poco diffusa nel nostro paese, come ha affermato Valeria Ferraris, ricercatrice del dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino e organizzatrice degli eventi di Woodie project. E probabilmente c’è anche un fattore culturale da tenere in considerazione: la tendenza a “percepire il whistleblower come una ‘spia’; è come con i pentiti di mafia, che nel linguaggio corrente diventano ‘gli infami’. Non consideriamo la denuncia di reati e di fenomeni corruttivi come un dovere civico”. Ciononostante, esso rimane uno strumento efficace per combattere la corruzione. Nei paesi in cui la pratica è stata normata ed è stata fatta informazione sul tema si è rilevato un aumento delle denunce con conseguente calo delle pratiche illecite.

Uno dei casi più eclatanti in Italia è stato quello di Ferrovie Nord, nel quale Andrea Franzoso, funzionario addetto al controllo del bilancio, il 10 febbraio del 2015 denunciò l’allora presidente Norberto Achille per aver speso a fini privati grosse somme di denaro della società di trasporti. La sua storia è stata raccontata nel libro “Il disobbediente”, edito da Paper First, pubblicato nel 2017. A seguito di questo evento le segnalazioni sono aumentate notevolmente. A confermarlo è l’Anac (Autorità Nazionale Anticorruzione) che stende un rapporto annuale: ad oggi sono stati raccolti 2.328 fascicoli sul whistleblowing, con un trend in crescita che è passato dai 125 del 2015 agli 873 del 2019.

Grafico che mostra l’andamento dei casi di segnalazione di whistleblowing dal 2014 al 2019. Fonte Anac.

Open data e qualità dell’informazione

Se il whistleblowing è un tentativo di far emergere fenomeni corruttivi nella pubblica amministrazione, gli open data sono una misura efficace per prevenirli a monte. Il principio è semplice: un’amministrazione trasparente, proprio perché non ha nulla da nascondere, rende pubblici, facilmente accessibili e consultabili i propri dati. In questo modo i cittadini possono controllare l’attività e l’organizzazione degli enti (comuni, Stato e regioni, Asl); maggiori sono i controlli, minore è il rischio di pratiche corruttive.

Stando al report comparativo di Woodie project, l’Italia è l’unico dei sette paesi monitorati a dare una definizione normativa di open data. L’articolo 1 del Cad (Codice dell’amministrazione digitale, d.lgs. n. 82/2005) pone l’attenzione su tre caratteristiche: la disponibilità, ossia l’utilizzabilità da parte di chiunque, anche a fini commerciali; l’accessibilità, cioè la facilità con cui si può entrare e navigare nel contenuto, anche per la possibilità di utilizzo in programmi diffusi (si pensi ai dataset in formato csv o xls, che possono essere agevolmente aperti su Microsoft Excel); la natura gratuita dell’accesso.

Il mondo degli open data è stato essenziale nell’anno e mezzo appena trascorso. Esemplare è il bollettino giornaliero della protezione civile sull’andamento del coronavirus: esso ha alla base un dataset che raccoglie tutti i numeri di persone decedute, contagiate e guarite trasmessi dalle regioni. Preziosi sono anche gli open data sulla campagna vaccinale in corso. L’accessibilità e la praticità dei dati rendono possibili infografiche per spiegare ai cittadini l’andamento della pandemia. Permettono inoltre di puntare i riflettori su questioni di interesse pubblico: le difficoltà di gestione dell’emergenza e delle vaccinazioni in alcune regioni piuttosto che in altre, per esempio.

Il punto d’accesso al dataset aggiornato sull’andamento della campagna vaccinale in Italia. Fonte: github.com

In generale, l’Italia con la legge Severino si è dotata di una solida struttura normativa in materia di pubblicazione dei dati. Le pubbliche amministrazioni, attraverso il loro sito istituzionale e in un’apposita sezione (“Amministrazione trasparente”) sono obbligate a fornire tutte le informazioni sulle attività che svolgono, sui contratti che stipulano, sulle spese effettuate, le entrate incassate e sull’organizzazione.

Le sfide tecniche e culturali sugli open data

In una macchina amministrativa complessa come quella italiana, la trasparenza dei dati è un obiettivo difficile. Ogni amministrazione gestisce diverse banche dati che non hanno uno standard comune. Non c’è un formato usato da tutti per tipo di file, né un sistema centralizzato che aggreghi e disaggreghi i dati. Questo rende disomogeneo il panorama degli open data nelle pubbliche amministrazioni. L’Agid (Agenzia per l’Italia digitale) monitora annualmente la disponibilità di banche dati pubbliche in formato aperto. Al 2019, i dataset nazionali disponibili di questo tipo erano il 72% (47 su un paniere di 65 totali). Per quanto riguarda gli enti locali, su un paniere di 48 dataset gestiti da ciascuna regione e provincia autonoma, si assiste a delle differenze sensibili nella disponibilità in formato aperto: si va dai 41 della Lombardia a un solo dataset in Molise e in Abruzzo.

Inoltre la trasparenza non è solo un fatto di quantità, ma anche di qualità di quanto viene reso disponibile. Come spiega Valeria Ferraris: “di informazioni pubblicate ce ne sono tante, il problema però è il come. Se i documenti vengono semplicemente fotocopiati, scansionati e messi in rete, non è possibile navigarci dentro e i cittadini devono leggere l’intero contenuto per trovare ciò che gli è utile sapere”. Il minimo, in questo caso, è rendere disponibili i file in formato pdf editabile ma, appunto, non si tratta di una regola adottata da tutte le amministrazioni.

Pubblicare tutto, poi, non significa necessariamente essere trasparenti: i dati possono essere una scusa per non rendere conto nel merito dell’attività. “Molte aziende pubbliche rendono disponibili tutti i loro dati; eppure quando si tratta di approfondire, i funzionari o i dirigenti si trincerano dietro a quelle stesse informazioni, magari rispondendo che ‘è tutto sul sito‘”, prosegue Ferraris.

In sintesi, in Italia mancherebbe la “cultura del dato”, che può fare la differenza sia in chiave anticorruzione, sia per il corretto sviluppo dell’opinione pubblica. Le amministrazioni e le organizzazioni che svolgono un servizio pubblico, dovrebbero utilizzare i dati come cifra della propria attività: Ferraris sostiene che “non c’è ancora l’idea che questi enti abbiano il dovere di rendere intellegibile quello che fanno a tutti”.

Per definire la trasparenza che dovrebbe caratterizzare l’amministrazione, spesso si usa la similitudine della “casa di vetro”, alludendo a una struttura facilmente controllabile dai cittadini perché al servizio di questi ultimi. Il rischio però è che questa casa sia “talmente trasparente da essere inutile: ha una quantità enorme di informazioni che non sono utilizzabili”.