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Vivere reclusi, abitare il carcere tra mancanze e bisogni

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Il carcere di Torino Lorusso e Cutugno, meglio conosciuto come “Le Vallette”, può contenere 1135 detenuti. Al momento dell’esplosione del contagio del coronavirus ne erano presenti 1486. Oltre 350 persone in più. Il drastico calo di reati di questo periodo ha diminuito notevolmente gli ingressi quotidiani nell’istituto, che da 20/25 al giorno sono scesi a tre o quattro. Dopo il decreto “Cura Italia”, che prevede l’uscita di alcune categorie di reclusi dagli istituti di detenzione, solamente trenta persone hanno lasciato le Vallette nelle prime settimane. Cifre insufficienti per garantire un’adeguata gestione della crisi. Non solo.

«I problemi strutturali purtroppo obbligano a lavorare solo sull’emergenza, quest’ultima ha dimostrato che gli istituti erano tutti impreparati», spiega Monica Cristina Gallo, Garante dei diritti delle persone private della libertà di Torino dal 2015. «Il sovraffollamento riduce l’efficacia di qualsiasi attività che possa migliorare il trattamento dei detenuti e la loro rieducazione. Lasciare una persona in balia di se stessa a farle passare il tempo è un sistema che non costruisce una persona diversa». Per la nostra Costituzione una pena deve tendere alla rieducazione del condannato, oggi il carcere non risponde a questo obiettivo.

Monica Cristina Gallo, Garante dei diritti delle persone private della libertà di Torino

Una soluzione che permetterebbe di superare le celle troppo piene potrebbe essere il potenziamento dell’esecuzione penale esterna, ovvero di quelle misure alternative di detenzione che consentono di scontare la pena all’esterno del carcere. Una realtà che però in Italia fatica ad affermarsi, anche per la difficoltà di convincere l’opinione pubblica che sia meglio scontare una pena fuori dal carcere, piuttosto che dentro. «Se una persona compie del male, dovrebbe riuscire a fare un percorso che si allontani dal ricevere altro male», continua la garante Gallo. «Se chi va a scontare una pena viene messo in una cella minuscola con uno sconosciuto, è costretto a fare la doccia solo a un certo orario, non viene accompagnato in percorsi rieducativi, viene ascoltato poco, non riceve risposte, allora è inevitabile che non possa uscirne in modo migliore da come è entrato».

In carcere manca spazio, manca un accompagnamento e spesso manca un’adeguata assistenza sanitaria e psicologica. A volte manca anche umanità. E Monica Cristina Gallo ha dovuto fare i conti con questa mancanza. Nel dicembre 2018 ha segnalato alla Procura di Torino la presenza di abusi su alcuni detenuti in una sezione delle Vallette. Da lì sono partite le indagini per un’inchiesta che prosegue ancora e che fino ad oggi ha portato agli arresti domiciliari sei agenti della polizia penitenziaria con l’accusa di tortura. «In quanto garanti il primo diritto che dobbiamo garantire è quello della dignità della persona, assicurandoci che il trattamento non sia inumano e degradante e che non vengano effettuate procedure di tortura», racconta. «È la nostra missione prima di ogni altra». L’indagine non si è ancora conclusa anche a causa dello stop all’attività giudiziaria imposta dai decreti per il contrasto al Covid-19. Ma potrebbe riservare nuove accuse.

La quarantena ha obbligato tanti italiani a fare i conti con uno stravolgimento della propria libertà personale. Niente a che vedere con la reclusione forzata in cui si trovano i detenuti. Però ha inevitabilmente portato a riflettere sul valore dell’essere liberi. Il rischio in questi casi è che si parli di carcere solo quando brucia qualcosa. Magari la voce che viene da dentro le mura in questi giorni è proprio questa: «Non dimenticateci».

ROBERTA LANCELLOTTI

 

Articolo tratto dal Magazine Futura uscito il 1 aprile 2020. Leggi il Pdf cliccando qui