«Lei trova affascinanti, sexy gli uomini che indossano una divisa? Lei indossava solo i pantaloni quella sera? Aveva la biancheria intima? In casa avevate bevande alcoliche? Lei ha bevuto dopo che i carabinieri sono andati via? La ragazza si è sottoposta a una visita ginecologica sulle malattie virali. Possiamo sapere l’esito di questa visita?». Processo per stupro, 1979? No. È il 2018, le domande sono poste dall’avvocata Cristina Menichetti e dal suo collega Giorgio Carta, difensori rispettivamente di Marco Camuffo e Pietro Costa. I due carabinieri di Firenze accusati di stupro da due ragazze americane.
Oltre dodici ore di interrogatorio separate dai loro avvocati, 250 domande a testa, la maggior parte delle quali non ammesse dal giudice Mario Profeta. Le due ragazze americane di 20 e 21 anni, a Firenze per studiare, sono trattate da colpevoli come lo fu Fiorella trentanove anni fa nel Processo per stupro, il documentario filmato dalle registe Loredana Rotondo, Rony Daopulo, Paola De Martis, Annabella Miscuglio, Maria Grazia Belmonti, Anna Carini.
Quello di Firenze è un caso limite che ha scosso l’Italia, ma è anche una definizione perfetta di ciò a cui vanno incontro le donne quando denunciano gli uomini che hanno fatto loro violenza. Si parla di vittimizzazione secondaria che, secondo Tullio Bandini, professore emerito di Psicopatologia Forense all’Università di Genova, scaturisce dalle«conseguenze negative dal punto di vista emotivo e relazionale, derivanti dal contatto tra la vittima e il sistema delle istituzioni in generale, e quello della giustizia penale in particolare».
Nel caso particolare della violenza maschile sulle donne si tratta di domande aggressive in sede di giudizio, ma anche di forze dell’ordine che scoraggiano dal denunciare o di processi trascinati finoalla prescrizione. Il Tribunale di Torino nel 2017 ha assolto un 46enne perché la donna che lui ha violentato «ha detto basta ma non ha urlato, e non ha tradito quella emotività che pur doveva suscitare in lei la violazione della sua persona». Sempre a Torino ha fatto scalpore nel settembre dello scorso anno un caso di abusi sessuali reiterati contro una minorenne caduto in prescrizione, perché il faldone processuale si era perso nel marasma dei 50-100 fascicoli arretrati da smaltire.
«Esiste anche un impianto culturale patriarcale che non è fatto di tecniche, ma che è intrinseco a come codifichiamo la realtà», spiega Elena Bigotti, avvocata di Telefono Rosa. «Si pensi solo al processo, quando il giudice dice “entri la vittima”: nell’immaginario comune pensiamo a una donna in difficoltà, in lacrime magari, debole e incapace di affrontare l’aula». L’unico modo per superare questo stallo, spiega ancora Bigotti, è con l’esercizio e con la pratica.
Esistono anche difficoltà pratiche in sede penale e civile per le donne che denunciano gli abusi domestici o sessuali. Sono problemi di tipo burocratico, che rendono il percorso più complesso: «Spesso nel civile ci sono molti procedimenti aperti tutti insieme: dalla violenza alla custodia dei figli, per non parlare delle tematiche patrimoniali», sottolinea l’avvocata Arianna Enrichens. «Sono processi che tra di loro non si parlano: questo nasce come tutela per la donna e molto spesso lo è, ma crea confusione e malessere». Sono anche le tempistiche ancora troppo lunghe a scoraggiare le querelanti: «Il fatto che passi troppo tempo tra l’apertura del fascicolo e le varie fasi processuali fa perdere fiducia a chi denuncia», fa sapere l’avvocata Milena Caffaratti. «Senza dimenticare che durante un procedimento è inevitabile che sia puntato un faro potente sulla vita personale della donna e sulla violenza che l’uomo le ha fatto».
Nel complesso, le esperte si dicono comunque soddisfatte dei passi avanti fatti dalla giustizia in merito alla lotta alla violenza maschile sulle donne. Il decreto legislativo contro il femminicidio del 2013 ha portato buoni risultati, sia nella protezione di chi sporge denuncia sia nella preparazione di chi la accoglie. Secondo la relazione finale della Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio del marzo 2018, è aumentato il numero delle donne che agisce contro l’uomo violento: dal 6,7 all’11,8%. Sono anche di più le sopravvissute che parlano con qualcuno (la percentuale di chi tace è calata dal 32 al 22,9%) o che si rivolgono ai centri antiviolenza (dal 2,4 al 4,9%).Con il Piano nazionale antiviolenza dello stesso anno sono stati investiti fondi nella formazione del personale socio-sanitario, dalle forze dell’ordine ai centri di primo soccorso.
«Quello della violenza in tribunale non è una realtà endemica e comune», aggiunge Enrichens. «Ci sono però processi farraginosi, burocrazie nemiche di chi denuncia e stereotipi che con pazienza cerchiamo di abbattere». Rimangono le domande colpevolizzanti come quelle degli avvocati dei carabinieri di Firenze, ma ci sono anche i giudici come Mario Profeta che non ammettono richieste violente.
«Sta di fatto però che queste domande rimbombano nella testa delle donne», spiega l’avvocata penalista Raffaella Carena. «Uno dei problemi che riscontro quotidianamente, è che negli ultimi anni non vengono imposte misure cautelari all’uomo violento: succede perché i processi si trascinano troppo a lungo con lo scopo di esplorare ogni dettaglio della vicenda, o perché la custodia o l’allontanamento non sono ritenuti necessari». Questo comporta un lavoro peggiore sull’urgenza, aggiunge Carena. «Alcune sentenze rimangono inammissibili – dice Enrichens -. Quando ci sono cause per l’affido condiviso, il fatto che il bambino abbia assistito ai maltrattamenti del padre nei confronti della madre non è una discriminante nella scelta del giudice. E quindi non si procede automaticamente con l’allontanamento».
In conclusione, per dirla con le parole di Elena Bigotti, «Il diritto non è neutro, ma è l’interpretazione di sensibilità diverse. Una più attenta ai pregiudizi, più universalizzata nei confronti della violenza maschile sulle donne è necessaria per venire incontro a chi ha il coraggio di denunciare e portare avanti un processo in tribunale».