“Inizialmente volevo studiare agraria, poi sono passata a ingegneria e, dopo un anno e mezzo, ho cambiato di nuovo strada, iscrivendomi alla facoltà per debosciati per antonomasia: lettere”. È con questo aneddoto – volutamente ironico – che questa mattina, 23 marzo, ha avuto inizio la conferenza che la sociolinguista Vera Gheno ha tenuto presso l’auditorium Quazza di Palazzo Nuovo.
L’autrice del saggio Le ragioni del dubbio è stata ospite del ciclo di appuntamenti “Le professioni della cultura”, organizzato da Vivo/Hangar Piemonte in collaborazione con il DAMS. Tanti i temi trattati, in primis relativi a tutte quelle difficoltà connesse alla decisione di intraprendere una carriera nella ricerca. Il limbo che segue alla discussione della tesi di laurea, i colloqui per il dottorato e l’assegno di ricerca, nel mezzo una collaborazione di vent’anni con l’Accademia della Crusca, la massima istituzione linguistica nazionale: quello di Vera Gheno è stato un percorso difficile, scandito da precarietà e costante incertezza.
Largo spazio anche all’impegno che, negli ultimi anni, ha visto la sociolinguista impegnata sul fronte delle questioni di genere: “Il non binarismo di genere non è una moda, ma lo spirito dei tempi. Non mi occupo di questi temi per motivi ideologici, ma per puro interesse di ricerca”.
Negli ultimi anni, Gheno è stata oggetto di feroci critiche sui social, il più delle volte legate ai suoi studi e agli esperimenti che ha provato a portare avanti, come ad esempio le proposte relative all’utilizzo dello schwa, una desinenza finale neutra che si usa al posto dei plurali maschili universali e potrebbe servire a rendere la lingua più inclusiva: “In una prospettiva gramsciana, penso che l’intellettuale debba impegnarsi, anzitutto, a fare qualcosa di utile per la società; nel mio caso, aiutare le persone a ricomporre la relazione con la loro lingua”.
Gheno ha anche precisato che il tipo di violenza che la sconvolge maggiormente è quella che prende le mosse dall’università: “Il tipo di odio che mi sconvolge di più è quello accademico: ci sono delle studiose e degli studiosi che pensano non soltanto che ciò di cui mi occupo non abbia rilevanza, ma addirittura che bisognerebbe vietarne lo studio. Sono segnali di un’animella fascista dura a morire”.
La sociolinguista ha messo in fila anche gli argomenti che vengono utilizzati più spesso per sminuire il suo lavoro, dall’accusa di stare semplicemente “inseguendo la moda” o quella di voler cambiare una lingua tramite una “imposizione dall’alto”.