Non una nuova carta deontologica, ma il simbolo di un impegno maggiore per una corretta informazione di genere. Un vademecum per trattare casi di violenza e discriminazione, per non intensificarli – volutamente o meno – attraverso parole e immagini: tutto questo è il Manifesto di Venezia, presentato nella città lagunare il 25 novembre scorso alla presenza di una folta platea.
La violenza di genere è, fuori da ogni dubbio e con decisione, una violazione dei diritti umani, e come tale deve essere perseguita: lo sottolinea con forza anche Stefanella Campana, giornalista e membro della Commissione Pari Opportunità alla Federazione Nazionale Stampa Italiana, che si è occupata della stesura del Manifesto. L’Italia ha sottoscritto nel 2013 la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica e negli anni sono stati fatti grandi passi avanti, dall’inserimento nel 1996 della violenza sessuale tra i reati contro la persona e non più contro la morale all’abrogazione del delitto d’onore nel 1981, dall’entrata nel linguaggio comune del termine ‘femminicidio’ alla prime discussioni sul significato di ‘vittima’ e ‘sopravvissuta’ della e alla violenza sessuale. “Ma ancora molto c’è da fare – spiega Campana – Dobbiamo essere noi donne a condurre la battaglia, come abbiamo fatto in passato”, senza però dimenticare il contributo fondamentale e naturale degli uomini: perché, come si legge nel testo del Manifesto “la violenza di genere non è un problema solo delle donne e non solo alle donne spetta occuparsene”.
Più di 900 tra giornalisti e associazioni di categoria hanno già firmato i dieci punti del Manifesto di Venezia, redatto dagli organi di pari opportunità di Fnsi e Usigrai insieme al Sindacato Giornalisti Veneto e all’associazione GiULiA Giornaliste. Il collante che tiene insieme le proposte è che “il diritto di cronaca non può trasformarsi in un abuso”, e che chi scrive (o parla, o monta un servizio) non deve insistere su descrizioni morbose o dettagli ininfluenti, violando quelle norme deontologiche già scritte nel Testo unico dei doveri del giornalista, nella Carta di Treviso e di Roma e in tutti gli altri codici a cui il Manifesto si attiene.
I dieci punti del Manifesto sono specifici, alcuni trattano le questioni terminologiche e lessicali mentre altri si concentrano sugli errori e le stereotipizzazioni volontarie e involontarie fatte dai giornalisti. Tra i primi c’è l’uso consapevole di ‘femminicidio’ e di ‘persona offesa’ dalla violenza invece di ‘vittima’ o ‘sopravvissuta’, ma anche quella controversa di adottare termini declinati al femminile per i ruoli ricoperti da donne (la sindaca, l’avvocata, la presidentessa), indiscriminatamente dalla volontà di chi ricopre quel ruolo: “la Crusca lo riconosce – spiega Campana – Quello che non si nomina non esiste, e la lingua deve rispettare le evoluzioni della società. È la stessa cosa che usare ‘persone’ al posto di ‘uomini’ per le frasi generiche”. Tra i secondi dare la stessa attenzione a tutti i casi di femminicidio, anche i più trascurati come quelli su transessuali o prostitute, evitare di suggerire giustificazioni alla violenza, motivandola con la perdita del lavoro, il tradimento o un raptus involontario e di raccontare la violenza non dal punto di vista dell’aguzzino ma della donna.
Campana sottolinea che questi dieci punti nascono dai vari codici deontologici che già esistono e “che prevedono sanzioni per chi transige, fino anche alla sospensione dal lavoro. Peccato per la lentezza nel giudicare”.
Per i giornalisti che vogliono sottoscrivere il Manifesto di Venezia, possono scrivere una mail a cpo.fnsi@gmail.com