“La cultura ha un ruolo e un senso solo se restituisce dignità alle persone che vivono nei luoghi dimenticati. Se rinuncia a questo, parte già sconfitta”. Il regista teatrale Gabriele Vacis aprirà mercoledì 15 la quarta edizione del Social Festival. Quattro giorni di incontri, laboratori e workshop dedicati agli operatori sociali, per affrontare all’interno della comunità i problemi quotidiani e ridare voce a chi vive al margine. Vacis, nato negli anni ’50 tra i palazzi della più profonda periferia industriale di Torino, ha dedicato la sua attività artistica al dialogo con la collettività in un processo di scambio e di ascolto.
Quale contributo darà al Festival?
Terrò un laboratorio di pratiche teatrali per la cura della persona alla Fabbrica delle “E” e a fine giornata andrà in scena lo spettacolo che ho realizzato con Vincenzo Pirrotta “Supplici a Portopalo. Dalla tragedia di Eschilo al dramma dei migranti”. Animazione sociale (la rivista che ha organizzato gli incontri) è uno dei pochi strumenti rimasti per riflettere sul welfare state in una logica di cura oltre che di assistenza. La novità di quest’ anno sono i laboratori. E’ arrivato il tempo della consapevolezza, dell’essere presenti a se stessi, agli altri e allo spazio.
In quale modo il teatro può aiutare a “fare società” oggi?
I maestri del ‘900 hanno messo a punto pratiche che vanno nella direzione della presenza degli attori in scena che hanno il dovere di prendersi cura del pubblico, ascoltare gli spettatori. Un teatro nel teatro. E penso che queste pratiche possano essere utilizzate anche in altri ambiti.
Nei giorni scorsi è nata la polemica dell’arte in periferia dopo le istallazioni di luci d’artista danneggiate alle Vallette. Qual è la sua visione?
E’ il compito della cultura quello di ridare dignità alle persone e di arrivare nei luoghi dimenticati. C’è ancora tanto lavoro da fare. Se a Torino le periferie non sono così compromesse, come in altre città, ad esempio Roma, lo si deve anche all’attività svolta negli anni ’60. Penso all’esperienza di Giuliano Scabia e del suo teatro nello spazio degli scontri a cui guardiamo con ammirazione e che ha lasciato un segno importante.
Settimo Torinese, dove lei ha lavorato a lungo, è in questo senso l’esempio di come la cultura può cambiare una periferia?
A Settimo abbiamo assistito alla trasformazione di un territorio che rischiava di diventare degradato. Un percorso che abbiamo iniziato ormai quarant’anni fa. Si è lavorato alla consapevolezza che la periferia poteva diventare un luogo vivibile. Adesso si è smesso di progettare, ci si è cullati un po’ sugli allori. L’importante è fare “manutenzione” per non perdere ciò che si è costruito.