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Una partita a rugby per “evadere” dal carcere

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C’è chi dice che sia lo sport più rispettabile, chi pensa che volino troppe botte e chi gioca solo in attesa del terzo tempo: è il mondo del rugby, dove in campo si punta alla meta e fuori ci si stringe la mano e si beve insieme. Anche con i detenuti. Da sette anni Walter Rista, ex campione azzurro dello sport dalla palla ovale, ha infatti realizzato un sogno: portare nelle carceri lo sport che gli ha regalato le gioie più grandi.

“Venticinque anni fa ero in Argentina con la Nazionale. Abbiamo fatto un incidente con un altro pullman ma le persone non uscivano dall’abitacolo: erano carcerati – racconta Rista -. Li ho guardati e sembrava che il loro sguardo fosse perso nel vuoto. In quel momento ho pensato: quando sarò vecchio voglio portare anche a loro la gioia del rugby”. Così, a distanza di anni, propone l’idea al direttore del carcere Lorusso-Cotugno di Torino, conosciuto come Le Vallette. Il progetto prende corpo e nasce così “La Drola, che oggi gareggia in serie C. “Drola in piemontese significa scherzo, pazzia – spiega l’ex campione – e poi, se la leggi male, leggi ‘Ladro’, è anche un gioco di parole”. Nel progetto sono coinvolti 32 detenuti provenienti dalle carceri di tutta Italia che possono fare richiesta di trasferimento per giocare a Torino. Ladri, delinquenti comuni, detenuti di vario tipo: “Abbiamo qualche regola: non accettiamo chi ha commesso violenza contro bambini e donne, non sarebbero accettati nemmeno dal gruppo. Tentiamo anche a preferire chi ha fatto danni al patrimonio e non alla persona”.

Lo sport è regole e disciplina e tutti rispettano ciò che viene chiesto: non c’è spazio per le rimostranze, ci si allena tutti i giorni e si sta in contatto con un mondo che, nel carcere, è un miraggio per molti. Il terzo tempo c’è anche in questo caso e si fa all’interno delle mura del carcere, spesso con i prodotti realizzati dai detenuti del progetto LiberaMensa. Le squadre del campionato, a turno, fanno andata e ritorno dietro le sbarre: “I detenuti non possono uscire, quindi vengono gli altri qui” aggiunge Rista.

I rapporti personali sono quelli di sempre, dei compagni che si trovano a mangiare insieme, di un allenatore che ci tiene. A tavola si svelano cose del proprio passato, senza forzature: “Io non chiedo perché sono dentro: a me interessa cosa faranno dal momento in cui entrano nel progetto in avanti, non il passato”.

Il capitano è uno dei primi partecipanti al progetto. Si chiama Christian, è in carcere per rapina e gioca per riscattare la sua vita. Non ha mai conosciuto il padre e ha iniziato a commettere piccoli reati dai 14 anni. Ha avuto la fortuna di incontrare una donna di cui si è innamorato, ha avuto una figlia ma poi la moglie è morta. Christian ha perso la testa ed è finito dentro. Gli hanno tolto la patria potestà: “Oggi mi dice che non gli interessa più di nulla, se non della figlia, che ha 15 anni e non vuole vederlo. Ce la sta mettendo tutta, lo sport lo aiuta, lo ripete sempre”. Numero 9 sulle spalle, arriva dal carcere dell’Isola d’Elba e ha fatto di Torino il punto di partenza per un cambiamento profondo. Che, a quanto pare, non riguarda solo lui: secondo i numeri dell’associazione “Oltre le sbarre”, che gestisce il progetto, la recidiva per chi gioca a rugby si aggira intorno al 25%. Normalmente è quasi al 70%. “Per me significa che funziona – spiega il rugbista azzurro – non resti in un carcere sette anni se qualcosa non va”.

In vista c’è anche un nuovo accordo tra Coni, Dap e Federazione Italiana Rubgy per portare il progetto in tutta Italia. Molte carceri hanno dei campi incorporati e potrebbero essere terreno fertile per proseguire l’idea.

Perché il rugby? “Perché è uno sport onesto. Nel rugby non c’è la star, non c’è il campione. Il protagonista è la palla. Per vincere devi correre avanti ma lanciare la palla indietro, devi lavorare di squadra. Se ti butti a terra per una finta i tuoi compagni ti cacciano dal campo. Ci sono le regole, ma servono solo per stare insieme. Lo capiscono i ragazzi e le squadre che passano da qui”. I ragazzi: così li chiama Rista, perché anche per le guardie del carcere non sono più solo “detenuti”. Vivono in un’ala speciale, dove si trova anche il progetto universitario, hanno celle diverse, più spaziose. “Sanno di avere un privilegio: nessuno sconto di pena, ma in un luogo come questo ci sono dettagli che fanno la differenza. Allenarsi ogni giorno, occupare il tempo, la mente, il corpo sono cose fondamentali. Normalmente i detenuti dormono con un occhio aperto. Se ti alleni tutto il giorno, riposi come un angelo, perché non ce la fai più”.

Nonostante il successo, il progetto non naviga in ottime acque. Compagnia di Sanpaolo, primo finanziatore, ha interrotto le erogazioni. L’ultima tranche di denaro, 5000 euro, è arrivata per caso, da una donazione privata di un uomo che ha disposto di utilizzare così la sua eredità, una volta morto. Ma le spese sono tante: i lavoratori sono 12, gli allenatori vanno pagati e l’iscrizione della squadra non è una passeggiata. Che cosa succederà in futuro? “Per ora ce la facciamo, speriamo che i nuovi accordi a livello nazionale aiutino ancora di più. Ma non è facile, non sappiamo mai se ce la faremo anche il prossimo anno”.

CAMILLA CUPELLI

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