La testata del Master in Giornalismo “Giorgio Bocca” di Torino

Una nuova vita per il Brachetto, sprofondato nell’anonimato

condividi

Anche il 2018 si è chiuso con il segno meno per il Brachetto d’Acqui Docg, un calo di 460mila bottiglie in linea con i dati che da quasi un decennio certificano la crisi delle vendite. E’ questo il quadro delineato dal Consorzio di Tutela del Brachetto d’Acqui per bocca del presidente Paolo Ricagno, personalità di spicco nell’ambito enogastronomico piemontese e direttore di Cuvage, la startup di Acqui Terme specializzata in bollicine. Dal 2011 il numero di bottiglie vendute è passato da 5.300.000 a 3.800.000.

Un’istituzione vinicola

La denominazione d’origine Brachetto d’Acqui Docg, creata nel 1996, è riservata ai vini delle tipologie Brachetto d’Acqui nelle versioni classica, spumante e passito. Ottenuti a partire da uve provenienti dall’omonima zona di produzione – situata a cavallo delle province di Alessandria ed Asti – i vini prendono il nome dal comune di Acqui Terme, a pochi chilometri dal confine tra Piemonte e Liguria.

Il Brachetto è un vitigno aromatico e come tale trasmette al vino i profumi presenti nelle uve mature, detti anche aromi varietali. Tali aromi si manifestano in forma di note muschiate, caratteristiche del vitigno, accompagnate talvolta da profumi terziari di vaniglia e tostatura nel passito. Il Brachetto ha una colorazione rosso rubino piuttosto chiara, a volte tendente al rosato. Al palato è morbido e delicato.

Fino alla fine del 1800 l’unico metodo utilizzato per la produzione di spumanti era quello cosiddetto Classico, che si basa sul principio di rifermentazione in bottiglia. Il metodo Classico è tutt’oggi alla base della produzione di alcuni dei più pregiati vini francesi, dal Chardonnay alle varianti di Pinot Bianco, Nero e Meunier. Il metodo di allevamento della vite più utilizzato per la produzione del Brachetto è invece quello cosiddetto Martinotti o Charmat.

Nel 1895 Federico Martinotti ideò un metodo di produzione caratterizzato da costi più contenuti e tempi di produzione molto più brevi. Questo metodo implica la fermentazione in massa del vino base in contenitori in acciaio inox sotto pressione (autoclavi) e a temperatura controllata. Il metodo venne poi migliorato e brevettato dal francese Eugene Charmat una quindicina d’anni dopo, ed è ormai universalmente conosciuto come metodo Charmat. Questo processo si presta particolarmente all’ottenimento di spumanti freschi e profumati, in particolare da vitigni aromatici, in quanto consente una più efficace estrazione di aromi e sapori in un lasso di tempo decisamente più contenuto rispetto al metodo classico. In particolare i vini spumanti dolci trovano in questo metodo quello più adatto alla loro produzione. Partendo da una selezione di vini base introdotta all’interno delle autoclavi, prende il via la fase di fermentazione rapida che ha una durata che va dai 30 agli 80 giorni.

Successiva è la fase di spumantizzazione, sempre a condizioni isobariche (sotto pressione) per non disperdere l’anidride carbonica sviluppatasi all’interne delle cisterne. La sequenza dettagliata dei processi prevede l’aggiunta di zuccheri, sali minerali e lieviti selezionati, il travaso, la filtrazione, la refrigerazione, l’imbottigliamento e il confezionamento. Particolare la storia del Brachetto spumante, che ha visto la luce grazie ad Arturo Bersano, produttore che intorno agli anni 50 dello scorso secolo mise a punto la vinificazione in autoclave del Brachetto proprio con il metodo Charmat.

Oltre al Brachetto, anche altre eccellenze come il Prosecco, il Moscato d’Asti (e i Moscati in generale) e i Lambruschi nascono tramite il metodo Charmat. Ma, paradossalmente, il passaggio più complicato per il Brachetto è quello successivo, ossia quello della commercializzazione.

Un problema di visibilità

Già a marzo 2017 Paolo Ricagno si esprimeva in questi termini riguardo le strategie di pubblicizzazione e vendita del Brachetto: «È necessario investire in pubblicità. A mio avviso, ciascun produttore dovrebbe rinunciare a una parte di reddito ogni anno per 3 o 4 anni per un importo di 500 euro per ettaro coltivato per costituire un fondo comune per creare investimenti sull’immagine». Deve quindi essere la componente agricola a sostenere i costi per la pubblicità, intervenendo sui media per aumentare la visibilità del prodotto. Una sfida ribadita anche nella sua recente intervista rilasciata a Futura News.

 

Una lettura del problema, quella di Ricagno, che ha raccolto pareri positivi ma anche negativi, come quello di Pierluigi Botto, presidente di Asso Brachetto: «Fondamentale è rivedere l’accordo attualmente in essere tra tutte le parti in gioco. Tutti, dagli agricoltori agli industriali, devono fare la propria parte. Occorre alzare i prezzi delle uve del 10 per cento, in modo che questa somma venga destinata al marketing». Un concetto ribadito negli ultimi tempi anche da Pietro Trinchieri dei Coltivatori Italiani Alessandria: «È necessario un rialzo del prezzo delle uve, fermo da molto tempo. Permetterebbe, seppur parzialmente, il recupero dei costi di produzione sostenuti dagli agricoltori. Solo così potremo mantenere in vita il patrimonio vitato del Brachetto che è parte integrante della storia del nostro territorio».

Della stessa idea sono anche Mauro Bianco e Roberto Rampazzo, dirigenti di Coldiretti Alessandria: «Servono un progetto concreto e dei programmi ben chiari per valorizzare questa Docg anche oltre i confini nazionali e per supportare quelle aziende che, oltretutto, hanno investito risorse in modo autonomo al fine di cercare nuovi sbocchi e promozionare un prodotto di elevata qualità che identifica un territorio ricco di storia. Solo una visione d’insieme lungimirante può portare ad un’immediata inversione di tendenza, necessaria per far sì che nell’anno in corso non si ripeta il trend negativo dello scorso».

È di pochi giorni fa l’incontro organizzato a Strevi da Luca Brondelli, presidente di Confagricoltura Alessandria, con le associazioni di categoria e i produttori di uve Brachetto. Alcuni interventi hanno evidenziato l’importanza del ruolo della cooperazione ed altri hanno sostenuto la necessità di un cambiamento all’interno del Consiglio di Amministrazione del Consorzio per ridare fiducia e slancio ad una produzione importante e significativa dell’area acquese.

Pare che il problema sia sotto gli occhi di tutti: unire le forze per ridare al Brachetto una visibilità nazionale ed internazionale che, mancando, ha creato un gap nei confronti degli altri prodotti del settore. La vera questione è come arrivare a questa azione congiunta. Le parti sembrano distanti e divise su molte questioni, l’auspicio è che ci sia uno sforzo per appianare le divergenze e riportare il Brachetto dove merita: sulle tavole degli italiani.

FEDERICO CASANOVA