Nei tempi che seguono la rivoluzione digitale non possiamo essere mai realmente soli. Ma al contempo, lo siamo ancor di più: “La vita ci ha trasformati in monadi, siamo tutti hikikomori, fondamentalmente e inconsapevolmente – spiega Fabio Chiusi -. Se a casa è offerto il miglior intrattenimento, lettura, le cose che contano non devi più uscire per andare a procurarle”.
Il giornalista, ricercatore e autore di saggi su culture e politiche del digitale, fellow del Centro Nexa del Politecnico di Torino, è arrivato al Salone per presentare Io non sono qui. Visioni e inquietudini da un futuro presente (DeAgostini, 2018), un viaggio che prende le mosse dall’iconica serie televisiva Black Mirror, affiancato dallo scrittore e blogger Francesco Pacifico.
Non tutto, però, è negativo come a volte appare: “L’immaginazione non è solo uno specchio (il “black mirror” degli schermi spenti che dà il titolo alla fiction britannica, ndr), ma un portale che ci può portare da un’altra parte, in un altro mondo, dove i problemi sono risolti, ci sono tutele e garanzie per i cittadini. Per citare la celebre frase ‘moriremo tutti democristiani’, potrebbe mostrarci che non siamo condannati a morire di questo”, dichiara l’autore, che nel testo prova a immaginare un futuro prossimo in una veste narrativa.
Anche dei social media, così spesso considerati causa di molti mali della contemporaneità, Chiusi registra il lato positivo: “Uso Twitter, che nel mio caso diventa un diario in tempo reale di quello che sto facendo: un diario pubblico, con ciò che ne consegue, ma aumentato dalle persone che lo leggono”.
Il dialogo tra i due scrittori tocca un tema d’attualità, la riproposizione del concorso #vinciSalvini: Chiusi, che due mesi fa si è dimesso da consulente del parlamentare 5 Stelle D’Incà, legge il rilievo dato dai media alla notizia alla luce della “virtualità totale e preminenza folle della comunicazione: ci sono più articoli su questo che su argomenti come i migranti. La comunicazione è uno scudo, un impedimento a parlare delle cose reali, cosa di cui dovremo imparare ad avere a che fare a livello sociale.”
Ma per lo scrittore non si può mettere sotto accusa la tecnologia di per sé: “Si tende a ragionare come se fossimo infanti o pezzi di “didò”, malleabili dalle tecnologie: è vero che ci influenzano ma scaricare le colpe in questo modo sarebbe come dire che se c’è uno spacciatore in zona sono costretto a diventare eroinomane.”
La tecnologia quindi, per Chiusi, non è tanto la causa dei problemi ma ciò che li fa emergere: “La vera questione è di equilibrio e giustizia sociale e non la tecnologia, perché questa fa solo emergere le questioni sociali”.