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“Tufo” racconta Ignazio Cutrò: una storia di mafia tra animazione e realtà

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“Se qualcuno che mi conosce mi vedesse in questo momento, così in difficoltà, direbbe: ‘Non è lui’. Perché io sono molto determinato, molto crudo e duro. Sono uno a cui è difficile strappare una lacrima. Eppure ora mi serve un po’ di tempo per riprendermi. Dopo il terzo minuto non ho fatto altro che piangere”. Queste le parole del testimone di giustizia Ignazio Cutrò al termine dell’anteprima di Tufo – mercoledì 10 maggio -, lo special tv di Victoria Musci ispirato alla sua storia. Selezionato in concorso al Festival International du Film d’Animation di Annecy (11-17 giugno 2023), il più grande evento mondiale dedicato all’arte animata, il film è stato prodotto dalle società torinesi Showlab e Ibrido Studio e dai francesi di Les Contes Modernes, con il sostegno di Film Commission Torino Piemonte – Short Film Fund.

“Noi siamo stati il primo programma testimoni di giustizia in Italia a rimanere nella propria terra” – racconta Ignazio, rivolgendosi agli allievi del liceo scientifico A. Volta, del liceo classico e dell’istituto comprensivo Tommaseo. Incalza: “Quanti testimoni di giustizia non possono tornare nelle loro case, non possono andare a vedere morire i loro cari, non possono neanche andare a trovare al cimitero i propri congiunti? Cosa hanno fatto di male queste persone? Hanno fatto il proprio dovere. Quella parte di Stato istituzionale si deve allora passare la mano sulla coscienza. Perché il mafioso viene arrestato, va in galera, sconta la sua pena e poi comanda più di prima, mentre la persona per bene che si affida nelle mani delle istituzioni viene portata via e non può tornare più nella propria terra? Ecco, questa sarà l’ascia che vincerà su questo sistema. Perché voi siete la nostra scorta, voi siete la nostra famiglia, voi siete la voce che dirà che i testimoni di giustizia non devono essere più isolati.”

Chi è Ignazio Cutrò

Ignazio Cutrò è il primo testimone di giustizia ad essere rimasto nella sua terra, la Sicilia. Nel 1999, da imprenditore alla testa di un’impresa edile, divenne il bersaglio di un clan mafioso locale. Da qui la sua storia di resistenza, alimentata da una straordinaria forza interiore. Ad ogni atto di sabotaggio, non seguiva una sua resa. Anzi, le minacce stimolavano il suo desiderio di giustizia. Secondo Ignazio, esisteva (ed esiste) un’unica via da percorrere: quella della denuncia. “Secondo me non si sceglie – afferma -. Ritengo che, per un cittadino, andare a denunciare rappresenti un dovere sia civico che morale. Se parliamo di ‘scelta’, cominciamo a sbagliare. Penso che alle volte ci dimentichiamo del fatto che lo Stato siamo noi. Non c’è quindi nessun obbligo: è un nostro dovere affidarci nelle mani delle istituzioni”. Eppure, questa via della giustizia condusse lui e la sua famiglia in un incubo lungo più di dieci anni: dopo gli arresti dei criminali, tutto il paese voltò loro le spalle. Rimasero soli. Nessuno voleva più lavorare con loro. Non avevano più amici né i mezzi per mandare i figli a scuola o per pagare le bollette. Dovettero chiedere aiuto. Fu grazie al supporto di giornalisti e magistrati che divennero ‘testimoni di giustizia’.  Accompagnati ovunque andassero da due guardie del corpo, iniziarono finalmente sentirsi protetti. Ma Ignazio aveva ancora una necessità fondamentale: trovare lavoro. Insieme alle persone che, come lui, hanno combattuto la mafia da semplici cittadini, scrisse allora un disegno di legge che consentì loro di lavorare nelle pubbliche amministrazioni. Lo stesso venne approvato nel 2018 dallo Stato Italiano ed è tutt’oggi in vigore su scala nazionale.

“È stato difficile far capire a Mantovano, al tempo ex vice-ministro dell’interno, che, se volevamo vincere sia noi cittadini, sia noi Stato sia loro istituzione, dovevano lasciarmi nella mia terra. Attorno a noi giravano all’incirca trentasei carabinieri al giorno. La mia famiglia era sotto scorta. Io in macchine blindate. C’era una vigilanza fissa armata con giubbotto antiproiettile a proteggerci. È stato difficile e continua ad esserlo. Ma si sono raggiunti dei grandi obiettivi”. Tra questi, l’assunzione dei testimoni di giustizia nella pubblica amministrazione. Ma anche il riconoscimento – per la prima volta – di “vittima di mafia viva”, sia a livello regionale che a livello nazionale. E poi la 3500 Bindi. “Finalmente c’è una legge per i testimoni di giustizia – continua Ignazio -. Perché quando Giovanni Falcone è andato a Roma per fare la legge per i collaboratori di giustizia (i cosiddetti “pentiti”), non c’era una legge e non si pensava che anche dei semplici cittadini potessero collaborare con le forze di polizia e con i magistrati”.

Tufo

Un racconto di mafia che si pone a metà strada tra realtà e animazione. La stessa tecnica di produzione lo conferma: personaggi animati si muovono sullo sfondo di scenografie dal vero. Del resto, “il linguaggio del documentario animato è potentissimo e universale”, affermano i produttori. “È come la musica. Si rivolge a tutti, a un pubblico di tutte le età e di tutto il mondo. Così, permette la trattazione anche di temi sociali delicati, come appunto quello della mafia”. Secondo Luca Milano, direttore di Rai Kids, sono tre i concetti chiave. “Innanzitutto, quello di verità, perché questa storia è profondamente intrecciata con la realtà. Ma anche coraggio: quello di Cutrò e della sua famiglia, lezione di dignità per tutti noi. Infine, tenacia: la capacità di non cedere a compromessi che possono sembrare piccoli, ma che allontanano dalla purezza, dalla forza, dall’essere veramente cittadini del Paese”.

Lo stesso Ignazio sottolinea come il film riesca a raccontare i fatti senza camuffarli: “Vittoria è riuscita a portarli davanti allo spettatore così com’erano. Riesco a rivedermi, a ripercorrere quei momenti perfetti. Credo che quando si fa un film del genere sia difficile non cambiare la realtà. Ma qui è vita vissuta. Ancora mi viene il magone”. La sua speranza è che questo film possa dare la forza di denunciare a chi ancora non ne ha il coraggio. “E che mandi il messaggio che, in realtà, lo Stato siamo noi cittadini”, afferma. “Perché la mafia si può sconfiggere. Oggi, è un 10 a 0 per la famiglia Cutrò”.