Trentatré anni, cinque mesi e trenta giorni sono passati dall’omicidio di Thomas Sankara all’incriminazione del suo vice e successore Blaise Compaoré, confermata martedì 13 aprile dal tribunale militare di Ouagadougou in Burkina Faso. Sankara, figura storica dell’antimperialismo, anticolonialismo e panafricanismo marxista, fu presidente del paese dal 1983 fino alla morte. Il Burkina Faso, il cui nome significa “terra degli uomini integri” nelle lingue more e bambara, precedentemente era conosciuto con il nome coloniale francese di Alto Volta, ma fu ribattezzato nel 1983 per volontà dello stesso Sankara. Il “Che Guevara africano” venne ucciso il 15 ottobre del 1987, all’età di 37 anni, nel corso di un colpo di Stato che portò al potere proprio Blaise Compaoré, il quale vi sarebbe rimasto fino al 2014, vincendo quattro elezioni in circostanze poco trasparenti.
Nominato primo ministro nel 1983, poi imprigionato e infine diventato presidente in seguito a sommosse rivoluzionarie appoggiate dalla popolazione, Sankara introdusse una serie di ambiziose riforme che miravano a riparare le diseguaglianze strutturali ereditate dal regime coloniale francese. Si fece promotore della produzione alimentare nazionale, concentrando le risorse dello Stato verso la maggioranza contadina per raggiungere l’indipendenza dagli aiuti internazionali. Si costruirono scuole, in parallelo con una intensa campagna di alfabetizzazione che portò a triplicare il tasso di frequenza scolastica, e ospedali. In una nota particolarmente attuale, nel 1984 furono vaccinati contro meningite e morbillo circa 2,5 milioni di bambini in poco più di due settimane: fu la prima campagna simile condotta nel continente.
Nonostante la repressione dei partiti di opposizione e la limitazione della libertà di stampa, la figura di Sankara rimase (e rimane) estremamente popolare in Burkina Faso e in altri paesi africani, tanto per la sua austerità e il contrasto del culto della personalità – rifiutò di far appendere la propria immagine negli edifici pubblici – quanto per le sue posizioni panafricaniste e di opposizione al neocolonialismo. “Se il Burkina Faso da solo rifiuta di pagare il debito verso i paesi occidentali, non sarò qui alla prossima conferenza!”, affermò in un discorso all’Organizzazione per l’unità africana tenuto circa tre mesi prima di essere assassinato.
“Per il Burkina Faso e anche per il resto dell’Africa, Sankara è stato un salvatore”. A parlare è Eddy Traoré, tesoriere della Federazione delle associazioni burkinabé in Italia e segretario di un’associazione di burkinabé a Torino, nonché rappresentante in Italia del Mémorial Thomas Sankara, rete mondiale che mira a costruire e arricchire la memoria storica del leader. “Parlare di lui, a tratti, è come parlare di Gesù per un cristiano: ha portato un messaggio molto forte, che a suo tempo non tutti hanno creduto, ma con il tempo tutti hanno capito che era l’unica strada per la salvezza. Lui non c’è, ma il suo messaggio vive ancora”.
Traoré aveva 12 anni quando Sankara divenne presidente: “Ero tra i pionieri della rivoluzione, giovani dai 12 ai 15 anni che ricevevano una formazione scolastica e anche politica. Ho anche incontrato Sankara: il 2 ottobre del 1987, pochi giorni prima che fosse ucciso, venne nella mia città a tenere una conferenza. Era molto simpatico, ho ancora il ricordo di lui negli occhi”. Emigrato in Italia quando Compaoré era ancora presidente, Traoré non ha mai smesso di credere che la verità sarebbe emersa: “Speravo che arrivasse prima, ma da quando Compaoré ha dato le dimissioni ho capito che era questione di tempo. Sentire la notizia dell’incriminazione in Italia è stato come essere in Burkina Faso: qui diversi scrittori e giornalisti ne hanno parlato, là c’è stata una forte mobilitazione dei giovani”.
Blaise Compaoré, braccio destro di Sankara negli anni di governo, una volta giunto al potere inaugurò una politica di “rettificazione” che aveva l’obiettivo formale di riparare i danni portati dalla rivoluzione. L’intenzione era di rinstaurare buoni rapporti con la Francia e la vicina Costa d’Avorio, dove Compaoré è poi emigrato dopo le proteste popolari che hanno portato alle sue dimissioni nel 2014. È ora accusato di attentato alla sicurezza dello stato, concorso in omicidio e occultamento di cadavere. Sono in tutto quattordici le persone che dovranno comparire davanti al tribunale. Per fare chiarezza, trentatré anni dopo, sulla morte di uno dei simboli della lotta africana all’imperialismo.