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The Phair Photo Art Fair, l’arte in uno scatto

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Tradizione e innovazione si guardano negli occhi al Padiglione 3 di “The Phair Photo Art Fair”, esposizione che racconta la fotografia dalle più diverse prospettive. Tecniche, linguaggi e messaggi si incontrano in questa quarta edizione, che porta con sé una grande novità: se negli scorsi anni l’appuntamento era stato riservato a galleristi italiani, nel 2023 si è deciso di portare nel capoluogo torinese anche galleristi internazionali, provenienti dalla Francia, Svizzera, dalla Germania e dalla Slovacchia. Sono 35 in totale e resteranno a Torino fino al 7 maggio. Tre giorni di fiera per scoprire in quale direzione si sta muovendo l’arte contemporanea in termini di fotografia e della concezione dell’immagine. 

Le protagoniste sono certamente le opere, ma sono gli accostamenti a rivelarne la personalità ancora più intensamente. “Abbiamo voluto creare un dialogo tra generazioni differenti – spiega Lorenzo Bruni, curatore del comitato The Phair – Sia gli artisti storici che quelli più giovani riflettono sul tema della visione. Una visione che deve essere rallentata, a favore di una maggiore attenzione sullo sguardo.  Abbiamo iniziato il percorso di quest’anno pensando alle parole del filosofo Luciano Floridi che spiega come la società, in questi ultimi anni, sia soggetta ad una censura che però non si realizza tramite la sottrazione ma, al contrario, per addizione. È un momento in cui noi, come pubblico abituato ad essere fotografo, dobbiamo imparare a prenderci il nostro tempo di dialogo con le immagini”. 

Spiccano tra gli stand i lavori di Anton Corbijn, fotografo olandese del rock mondiale che espone, tra gli altri, anche un celebre scatto di Leonard Cohen. E dalla fotografia più classica si passa all’arte povera con le opere di Michelangelo Pistoletto, immagini che si realizzano non su tela ma su specchio. “La riflessione qui si concentra su quel narcisismo dello sguardo al quale è abituata la nostra società – racconta Bruni – e proprio di fronte alle sue opere ci sono quelle di Luigi Veronesi, in un accostamento più che interessante”. Dell’artista milanese sono esposte alcune sperimentazioni fotografiche del secolo passato: “Il tentativo, allora, era quello di espandere la fotografia quando si avviava l’era del cinema”. Epoche differenti ma la volontà è la stessa ed è quella di prendere parte al cambiamento raccontandolo tramite l’arte della fotografia, senza mai provare ad ingabbiare la realtà.

“A me interessano i segni che fa l’uomo senza saperlo, ma senza far morire la terra. Solo allora hanno un significato per me, diventano emozione. In fondo fotografare è come scrivere: il paesaggio è pieno di segni, di simboli, di ferite, di cose nascoste”. Le parole sono quelle di Mario Giacomelli, uno dei grandi della fotografia internazionale. A lui è riservato uno spazio all’interno del Padiglione 3, una mostra nella mostra che permette al pubblico di ammirare una settantina di scatti provenienti dalla collezione di Massimo Prelz Oltramonti. Le opere esposte appartengono alle più celebri serie dell’artista, da “Scanno”, che lo portò a New York nel ’64 (chiamato ad esporre dal direttore del dipartimento di fotografia del MOMA di New York) a “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” che ritrae gli ospiti dell’ospizio di Senigallia, un lavoro che lo occupò dal ’66 al ’68. 

Presenti anche alcune fotografie di “La Buona Terra”, “Presa di coscienza sulla natura”, “Io non ho mani che mi accarezzino il volto” fino a “A Silvia”. Poesia che non solo nomina l’immagine, ma prende vita nei volti e nei segni che Giacomelli ha saputo catturare senza voler possedere: “Le mie foto vogliono illudersi di essere scritture segrete, non belle immagini, non fatte solamente per essere capite, ma interpretate”. 

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