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Tenebra del Congo: conflitti etnici e interessi privati, sfondo della morte di Attanasio

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Il caotico, esuberante ammasso di vegetazione che si staglia come un muro impenetrabile agli occhi di chi lo osserva. Il fascino tragico della foresta del Kivu fa da sfondo alla morte di Luca Attanasio, ambasciatore italiano nella Repubblica Democratica del Congo. Lunedì 22 febbraio la sua auto viene bloccata da colpi d’arma da fuoco. La strada per Goma, dove avrebbe visitato un programma di alimentazione scolastica, viene sbarrata dai ribelli. Insieme a lui scendono il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo.

Una terra verde, pulsante di pericolo, marchiata dal sopruso: il Congo, quel Cuore di tenebra. E in primo piano, l’agguato

I ranger del parco nazionale di Virunga intanto corrono per soccorrere quelle che ormai si possono considerare le vittime. Uno scontro di fuoco, le pallottole colpiscono Attanasio all’addome, insieme a lui moriranno anche Iacovacci e Milambo. Probabilmente un tentato sequestro, che finisce male, tragicamente, ma su questa ricostruzione stanno anche già lavorando gli investigatori italiani del Ros. Nessuno rivendica l’attacco. Una ferita per l’Italia che costringe a puntare i riflettori sulla promiscua violenza che persiste nel Congo. Una terra che sembra ancora incastrata nell’immaginario di Conrad. Mitica, leggendaria, a tal punto che, a volte, sembra quasi essere dimenticata dal resto del mondo.

Un ritratto dolorosamente bello quello del Congo, che nasconde in seno alla sue ricchezze i peccati che da secoli logorano la miniera del mondo: coltan, diamanti, oro, cobalto, zinco, argento, rame, carbone e petrolio. Le torbiere tropicali più estese della terra, grandi quanto l’Inghilterra, stagnano nel bacino caldo e umido del Congo. Un patrimonio minerario e naturale che fomenta gli interessi di gruppi armati interni e lo espone a interessi economici globali.

“Manca la capacità di mettere a frutto le ricchezze, e questo porta allo sfruttamento del paese. I contratti con la Cina sono impari. Nel 2002 lo Stato ha ceduto le miniere di rame del Katanga a investitori privati, che si tengono ovviamente i guadagni. Quindi non ritornano nelle regioni di provenienza”, spiega Edoardo Quaretta, docente  del corso di Antropologia culturale ed etnologia presso l’Università di Torino. Il conflitto locale è visceralmente legato all’estrazione dei minerali da parte dei ribelli. Una connessione che diventa ancor più evidente tra il 2004 e il 2005, durante la seconda guerra del Congo, quando l’impennata nei prezzi mondiali dei minerali si ritorce sul territorio alimentando i conflitti locali nelle aree orientali del Paese. Il Congo, poi,  è grande come l’Europa Occidentale: l’altro grande punto di delobezza. “Il controllo del territorio è estremamente difficile, proprio per le dimensioni del paese, 2.345.000 chilometri quadrati”. Un dato che denuncia anche la difficoltà di mantenere una presenza statale forte. “Si è tentata una decentralizzazione in province dotate di autonomia, proprio per permettere una maggiore governabilità. Ma lo Stato, non avendo risorse, non ha potuto rendere reale quell’ autonomia”, aggiunge Quaretta. I suoi confini sono porosi, fragili, terreno di contrabbando. Il Congo è selvaggio, frammentato in fazioni. Il Kivu security traker, mappando gli episodi di violenza nel Congo, rivela dati inquietanti. Nel 2020 sono 120 i gruppi armati che combattono per procurarsi mezzi di sopravvivenza, per controllare il territorio. Identità etniche indurite che trascinano in voragini di brutalità. “L’instabilità politica rappresenta un grave problema per la Repubblica Democratica del Congo. Subisce politiche autoritarie, che perdono via via di autorevolezza”, e permettono la convivenza di due mondi: quello istituzionale, dei funzionari, del governo di Kinshasa, e quello dei gruppi armati, dei bambini soldato, dei signori della guerra. Quella terra travagliata dalla lotta fra le fazioni che la rivendicano in nome di diritti figli dell’identità etnica. “L’etichetta di conflitto etnico però nasconde interessi privati. In realtà le identità delle regioni dei Grandi Laghi sono sempre state fluide. I gruppi militarizzati si sono addossati queste identità, spesso in modo contraddittorio, per giustificare le loro azioni”, racconta il docente di Antropologia culturale. Una manipolazione dell’appartenenza etnica che si traduce in una violenza endemica per la gestione delle risorse. Un conflitto per il controllo delle grandi risorse minerarie nell’est del Paese.

L’assenza di una visione globale per risolvere la crisi è preoccupante. “E’ necessaria una cooperazione vera con i paesi del Sud del mondo. Da pari a pari. Il Far West del neoliberalismo ha permesso la creazione di un terreno fertile per interessi privati con gli stati. Al Congo manca un potere di negoziazione forte.” Un paese politicamente marginalizzato, lasciato a se stesso, vittima della selvaggia globalizzazione. “Bisogna fare una riflessione critica sulla cooperazione internazionale. Non quella di 20-30 anni fa. Deve assumere caratteri bilaterali. Trattare il Paese come sovrano”, conclude il professor Quaretta. La storia di cattiva politica in Africa è lunga.

Programmi di riforma per proteggere i civili e migliorare le istituzioni. Lasciar filtrare quelle informazioni che raccontino al mondo la violenza annidata e resistente che continua a infierire sul Congo. Sono un punto di partenza. Tentativo interessante quello di Laura Seay, che utilizzando i dati cerca di informare meglio la politica statunitense sulla situazione africana, catalogando dato per dato, testimoniando violenza per violenza.

Raccontare il Congo per davvero. Non più come quel Cuore di tenebra, terra di un altro pianeta.