“Mi fa male dirlo, ma credo che queste siano le ultime elezioni democratiche della Turchia. Se i democratici riescono a vincere allora dimostreremo al mondo che si può vivere pacificamente, ma se perdiamo non penso ce ne saranno altre”.
Sono parole dure, quelle che Ece Temelkuran condivide con la platea di Biennale Democrazia nell’evento d’apertura dell’ottava edizione del festival torinese. Al suo fianco c’è un’altra testimone del mondo e dei suoi mali, la giornalista Francesca Mannocchi, che la accompagna in un viaggio “ai confini della libertà” nel suo paese natale, la Turchia.
Il prossimo 14 maggio i cittadini turchi saranno chiamati alle urne per eleggere un nuovo presidente: il principale sfidante di Recep Tayyip Erdogan, attualmente in carica, sarà il repubblicano Kemal Kilicdaroglu. Oggi il Paese è ancora profondamente ferito dal terremoto del 6 febbraio scorso, che ha causato oltre 50 mila vittime e danni enormi nelle regioni meridionali. La giornalista e attivista Ece Temelkuran lo racconta con disincanto, ma senza perdere fiducia nella passione politica e nella democrazia. “La gestione del terremoto – afferma – è stata piena di negligenze. Alcune città sono state intenzionalmente tralasciate e tutto questo è avvenuto sotto i nostri occhi”.
Eppure. L’eppure c’è ed è che l’argomentazione logica a volte viene meno. Salta il banco. Ecco una delle caratteristiche delle derive autoritarie: “Ci si trova a discutere con persone che affermano che la terra sia piatta e che accusano di complottismo chiunque dimostri il contrario”.
È proprio questo, per Ece Temelkuran, uno dei passi che conducono a una dittatura, analizzati all’interno del suo ultimo libro (Come sfasciare un paese in sette mosse. La via che porta dal populismo alla dittatura) a partire dall’esperienza del suo Paese natale. Prima avviene l’identificazione del leader con il popolo: “Se il leader dice ‘io sono il popolo’ – racconta la giornalista – allora criticare il leader significa criticare il popolo. Questo ha fatto sì che sedici anni fa la maggior parte degli intellettuali turchi rimanessero in silenzio. Non volevano porsi come élite contrapposte a persone reali”.
Così, per l’attivista, si disintegra la logica nel dibattito pubblico, a cui fake news e post verità spianano la strada. Seguono precise scelte lessicali e politiche, normalizzazione della crudeltà anche attraverso la parola: tasselli di una deriva che anche l’Occidente conosce bene. “Dopo il tentativo di colpo di stato del 2016 – aggiunge – ho visto molte persone lasciare la Turchia. Intellettuali, medici, cittadini con un grado di istruzione medio alto che si sentivano derisi, vittime di un atteggiamento cameratesco. Al leader non servono cittadini istruiti, ma ubbidienti. Per questo dobbiamo tornare ad un’illuminismo 1.0, quello del sapere, che è meglio di credere, se si parla di verità”.
Ma il messaggio di Ece Temelkuran è di fiducia nelle nuove generazioni e nella democrazia. “Non solo fiducia – conclude lei stessa -, fede: siamo cresciuti sentendoci dire che siamo egoisti, che siamo in competizione, che la politica fa schifo e abbiamo finito per crederci. Abbiamo smesso di amare gli esseri umani e la politica, perché per fare politica devi amare e devi avere fede. Ma oggi possiamo unire le forze – il femminismo, i movimenti per il clima e qualsiasi pensiero che miri ad abbattere le disuguaglianze – e superare la tragedia della storia. Io credo che le giovani donne cambieranno il mondo, lo faranno in modo rapido e ne saremo sorpresi”.