Anna ride, mentre gioca con i sassolini di asfalto in una buca a bordo strada. Li lancia in aria, guardandoli atterrare, mentre la mamma Tatiana si assicura che non vada in mezzo alla carreggiata. Vestite pesanti per far fronte a un vento tanto freddo da spaccare le mani, aspettano il pullman. Anna e Tatiana fanno parte delle decine di migliaia di profughi ucraini arrivati in Romania dall’inizio dell’invasione russa, il 24 febbraio. Sono per la stragrande maggioranza donne e bambini, che affrontano l’esodo più grande che l’Europa ricordi dalla Seconda guerra mondiale.
Secondo l’Unhcr, dall’inizio della guerra sono fuggite dall’Ucraina oltre 2 milioni e 300mila persone: un milione e 400mila in Polonia, 214mila in Ungheria, 165mila in Slovacchia, 100mila in Russia, 82mila in Moldavia. La Romania ha visto entrare oltre 84mila profughi. Per loro, per la prima volta nella storia, l’Unione Europea ha previsto una protezione temporanea di un anno, estendibile di altri due anni, in applicazione della Direttiva 55 del 2001. Possono inoltre contare su uno sforzo solidale e umanitario che coinvolge istituzioni locali, organizzazioni non governative da tutto il mondo e cittadini, in una rete di assistenza che si traduce in primo soccorso, orientamento, fornitura di cibo, indumenti e beni di prima necessità e trasporto, in tutta Europa.
La quasi totalità di chi fugge in queste settimane, infatti, sa già dove andare. Anna si sposterà con la famiglia, di religione ebraica, dai genitori della mamma. Anche il papà, Mark, è riuscito a uscire dall’Ucraina: grazie alla doppia cittadinanza ucraina e isreaeliana, non è obbligato a rimanere nel Paese per combattere. «Sono nato in Ucraina, ma quando avevo 17 anni, dopo la scuola, sono andato a vivere in Israele» racconta. «Ho vissuto lì dal 1994 al 2007, e ho conosciuto la guerra. Dopo il 2007 sono tornato a vivere in Ucraina, fino ad oggi». Chiedo qual è il sentimento generale nel Paese: «Domanda difficile. Dopo l’invasione della Crimea nel 2014 gli ucraini erano divisi. Chi pensava fosse giusto, chi pensava fosse sbagliato. La guerra di Putin ha cambiato tutto. Ora siamo uniti». Si volta verso Anna: «Lei capisce che qualcosa è cambiato drammaticamente, ma grazie a Dio è molto coraggiosa. Ha un carattere molto forte».
Nella costellazione di attori solidali presenti a Siret c’è, oggi, anche la ong medica italiana Rainbow for Africa. Nata a Torino nel 2007, è impegnata a livello sanitario su più fronti: in Africa – Etiopia, Burkina Faso e Senegal – si occupa di formare il personale sanitario locale e incrementarne l’equipaggiamento medico; in Italia, oltre a promuovere l’educazione alla cooperazione e all’integrazione degli immigrati nel tessuto sociale, dal 2017 fornisce assistenza medica lungo la rotta migratoria in Val di Susa. Ho condiviso il viaggio dall’Italia con la loro unità di crisi, che interviene in ogni parte del mondo. «Questo è un progetto fondamentalmente di sopralluogo» spiega Stefano, logistico. «Nelle prime ore dall’inizio della guerra la situazione era decisamente più grave, ma ora si sta regolarizzando. Purtroppo immaginiamo che l’emergenza durerà nel corso del tempo. La bellissima gara di solidarietà che c’è stata in tutti i Paesi ha portato una buona quantità di materiali. Ma la fase più importante da seguire sarà nelle prossime settimane». Sì, perché se ora a fuggire sono persone di media estrazione sociale, con la facoltà economica di spostarsi velocemente fuori dal Paese e con già una destinazione prefissata – cosa che facilita di molto la gestione della prima accoglienza – in futuro le caratteristiche dei flussi potrebbero cambiare. Oltre ad aumentare di numero (si stimano 4 milioni di profughi in futuro), è probabile che aumenteranno coloro che non sanno dove andare, o che hanno maggiori necessità sanitarie. La solidarietà deve continuare, e deve organizzarsi. «Rainbow For Africa – continua Stefano – ha la possibilità di venire qui con mezzi logistici e sanitari tra cui un bus ospedale, ambulatori mobili e container medici per continuare con l’assistenza».
L’arrivo e l’accoglienza delle persone sono organizzati principalmente dai pompieri locali, una sorta di protezione civile. Nei campi profughi, tutti gestiti da loro, la permanenza media è di 48 ore, in attesa che vengano compilati i documenti necessari. Il campo principale si trova allo stadio di Siret: 400 posti disponibili, più di 300 già occupati. Ora la situazione è gestibile, ma chi verrà nelle prossime settimane resterà, probabilmente, più a lungo. Nel campo allestito nella città di Milișăuți c’è invece una storia nella storia: la palestra riconvertita ospita alcune centinaia degli oltre 20mila studenti universitari indiani rimasti in Ucraina dopo l’inizio della guerra. Il governo indiano, presente qui con un suo rappresentante, si è attivato subito per organizzare la loro evacuazione, e finora ne sono stati riportati a casa oltre 9mila dal vicino aeroporto di Suceava. «È davvero una situazione scioccante – dice Amandeep Singh, 23 anni, studente di medicina a Kharkhiv – esplosioni, bombardamenti… è davvero difficile sopravvivere lì. Un mio amico è rimasto ucciso. Anche la mia università è stata distrutta. A Kharkhiv è tutto finito».
Nel pomeriggio torniamo alla frontiera. Il gruppo di Rainbow for Africa è in contatto da giorni con Oleg, un chirurgo di Černivci, Ucraina, a 40 chilometri dal confine. Lì, per ora, la guerra non è ancora arrivata, ma nell’ospedale gli interventi sono stati sospesi. Si è accordato con l’associazione per l’eventuale trasporto in Italia di Yuri (nome di fantasia), un bimbo di sei mesi affetto da una malformazione anorettale congenita, per cui servono successive operazioni chirurgiche impossibili da effettuare a Černivci. Nel corso della giornata il Policlinico di Milano ha dato disponibilità ad accoglierlo, e il personale di Rainbow decide di andare nella zona neutrale del confine ad attendere il suo arrivo, accompagnato dalla mamma. Verso sera la buona notizia: Yuri è arrivato in tempo, si può ripartire. Alle 18 iniziano con noi il viaggio di oltre venti ore verso il Policlinico. Gli occhi blu di Yuri ci accompagnano per i 1700 km del tragitto di ritorno. Arriva al Policlinico sano e salvo, senza un lamento. Il vento della guerra ha cambiato la sua vita, forse per sempre, ma riceverà le cure necessarie.
Per Rainbow For Africa le prossime settimane prevedono una nuova spedizione, questa volta in Moldavia. A Palanca, 50 chilometri a ovest dalla città ucraina di Odessa. Lì la situazione è ben diversa da Siret: la presenza di associazioni e organizzazioni umanitarie è minore, e meno organizzata. C’è molto lavoro da fare: dipenderà tutto dall’immediato futuro di Odessa, città assediata.