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Simona, Giovanni e Justine: tre storie di emigrazione tra addii e ritorni

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Una chiamata può cambiare all’improvviso la vita. La valigia ancora da riempire, tra vestiti, speranze e dubbi. Ma è davvero la scelta giusta? I ricordi passano in rassegna: amicizie, affetti, l’amore per il Paese in cui sei nato, per la città in cui sei cresciuto. Gli occhi tristi di mamma e papà, mentre ti accompagnano in aeroporto accennando un sorriso. Vorrebbero sprofondare. Basta un semplice squillo del cellulare o il suono di una mail per incrinare certezze che sembravano scolpite nel marmo. Partire non è mai facile, lasciare i propri cari ancor di più.

Partenze e disoccupazione giovanile: i numeri

Per chi soffre di vertigini meglio lasciar perdere: salti nel buio così richiedono tanto coraggio. Eppure, sono sempre di più le persone che lasciano l’Italia per andare a vivere all’estero. Soprattutto giovani. Secondo l’ultimo rapporto “Italiani nel mondo” della fondazione Migrantes, nel 2016 sono stati 24 mila i nostri connazionali che hanno detto addio. Di questi, 48.600 sono ragazzi tra i 18 e i 34 anni (+23,3 per cento rispetto all’anno precedente, quando erano 39.400). Le mete preferite? Regno Unito, Germania, Svizzera, Francia, Brasile, Stati Uniti e Spagna.

Il 37% dei migranti italiani possiede il diploma, il 24,5% ha almeno una laurea. Per loro non c’è spazio da noi. Il congedo è un passo necessario: una scelta meditata dopo periodi di frustrazione, tra lavori precari e sogni che si sgretolano al cospetto del mercato del lavoro. Studiare sembra non bastare più. Anzi, laurearsi con il massimo dei voti è diventato un obbligo o un escamotage per allontanare il fatidico momento in cui si entra a far parte della folta schiera dei disoccupati. D’altronde i dati Eurostat parlano chiaro: secondo l’ufficio statistico dell’Unione Europea, nel 2017 l’Italia ha registrato un tasso di disoccupazione giovanile pari al 34,7%. Solo Spagna (38,6%) e Grecia (43,6%) ci precedono in questa classifica anti-virtuosa per eccellenza, con la Germania distante anni luce (6,8%).

Tra le grandi città del Nord, Genova è quella maggiormente in crisi, come certificano i dati Istat: nel 2017 la disoccupazione giovanile nel capoluogo ligure è stata del 25%, contro il 16,3% di Milano. Con il suo 24,5% Torino non sta tanto meglio, anche se è in miglioramento rispetto al 30% del 2015. Genova no, è bloccata da un pezzo nelle sabbie mobili del precariato.

Simona e la #FuFamily

“Da questa esperienza ho imparato che non bisogna mai dare nulla per scontato. Quattro anni fa la Spagna era solo un Paese colorato e festoso, ora es mi casa”. Simona Giobbe, 27 anni, se ne va da Genova a luglio 2014. La laurea in Scienze pedagogiche, il sogno di diventare psicologa o maestra d’asilo. Poi una chiamata sconvolge la sua vita e quella del fidanzato, Qing Quan Fu. “Un cugino ci ha chiesto se eravamo interessati a gestire un’attività commerciale a Valencia. Abbiamo subito accettato. Una settimana dopo eravamo già in Spagna”.

Che botta per mamma Anita e papà Riccardo: neanche il tempo di metabolizzare la notizia ed è il momento dei saluti. “Non dimenticherò mai quando ci siamo abbracciati in aeroporto. È sempre più difficile per chi resta, anche perché, quando una figlia parte, non sai se tornerà mai indietro”. Una scelta coraggiosa, ma Simona non sembra pentita. “Ero stanca di passare il tempo sui libri. Sentivo l’esigenza di fare qualcosa di più pratico, di essere indipendente”.

Simona con in braccio il figlioletto Samuele

E poi, due anni fa, a Valencia è nato Samuele Zekai Fu. “Un cittadino del mondo”, figlio di una mamma italiana e di un papà cinese. Tra Simona e Qing Quan l’amore era sbocciato a Genova, tra i banchi di scuola. In Spagna il loro rapporto si è consolidato, tanto che si sposeranno il 28 luglio. Nel frattempo si sono trasferiti a Barcellona, dove hanno aperto un negozio all’ingrosso di abbigliamento made in Italy. Il piccolo Samuel, come lo chiamano all’asilo, alterna catalano e castigliano. Ama la pizza e la paella. Se un cibo non gli va giù è un “no gusta” dietro l’altro, ma quando vuole attenzioni urla “mami!” a squarciagola. “Non mi importa dove crescerà, l’importante è che continui a essere libero e curioso come è adesso. Oggi questo posto è casa sua. Magari un domani potrà essere un altro Paese”.

Video, foto o semplici post: Simona documenta spesso su Facebook le giornate con il suo bimbo. È come se volesse aprire un libro dei ricordi digitale, rendendo partecipe chi è lontano e non può vedere da vicino il suo “Samu”. L’hashtag è sempre lo stesso: #FuFamily. Il cognome di Qing Quan è un passato remoto declinato al futuro. Di certo, quello di questa famiglia speciale sarà ancora lontano dall’Italia. “Se penso agli affetti che ho lasciato, a mio fratello, alle mie nonne, al mio cane, mi piacerebbe tornare. Poi chiudo gli occhi e mi vedo ancora qui”. Fuerza y coraje, Simona.

Giovanni: un viaggio andata e ritorno

Più cileno che italiano, ma guai a chiamarlo austriaco. Giovanni Curatelli, 30 anni, è tornato in fretta in Italia dopo un breve periodo di “esilio” a Salisburgo. Nato in Cile ma cresciuto a Genova, dove è stato adottato, se ne va a gennaio 2015. La città di Mozart gli sembra una nuova mamma pronta a coccolarlo. Bastano cinque mesi per cambiare idea. “Ho trovato un clima ostile – spiega – Parlavo inglese e intanto studiavo il tedesco. Non è una lingua facile, richiede tempo. Eppure, la gente del posto non ama gli italiani. È stato un incubo”.

Giovanni si laurea nel 2011 a Genova in Scienze della Comunicazione. Vorrebbe fare il giornalista sportivo ma, dopo uno stage al Secolo XIX, il principale quotidiano genovese, e una successiva collaborazione, decide di cercare un lavoro stabile. Invia decine di curriculum. Nessuna risposta. Demoralizzato, pensa di cambiare aria. “Non riuscivo a trovare nulla, finché un giorno, grazie a un amico di mio papà, è arrivata l’occasione giusta: un posto in un call center a Salisburgo. Non certo l’occupazione della vita, ma almeno avrei avuto uno stipendio fisso”.

Giovanni Curatelli in posa con la bandiera del Cile

Le cose però non vanno. Problemi di adattamento e anche un po’ di quella saudade tipica dei sudamericani. Perché Giovanni ha sì l’accento genovese, ma è cileno nell’animo. Difficile rinunciare alle uscite serali con gli amici. Per non parlare delle partite a calcio o a basket, le sue grandi passioni. “Ho capito che l’Austria non faceva per me. A Genova ho tutto quello di cui ho bisogno”. Devi avere coraggio per andartene, ma anche per fare un passo indietro. Oggi Giovanni ha trovato la sua strada: lavora nelle scuole come educatore. I bambini lo fanno disperare, ma gli danno anche tante soddisfazioni. A volte la felicità è più vicina di quanto si pensi.

Justine: una francese a Roma

C’è anche chi compie il percorso inverso: arriva in Italia per l’Erasmus e poi non se ne vuole più andare. Justine Revelle, 26 anni, viene da Cherbourg-Octeville, cittadina della Normandia, ma di francese conserva solo la “erre” arrotata e vibrante tipica della sua lingua. Parla di croissant e intuisci la sua origine, per il resto tra un “ci stanno” e un “mo” l’accento romano la fa da padrone. “Tutta colpa di Emiliano, il mio ragazzo – sussurra, mentre le guance arrossiscono – mi ha contagiato con il suo romanaccio. Persino i miei colleghi mi prendono in giro…”.

Di certo, questa ragazza bionda dagli occhi azzurri ha un legame particolare con il nostro Paese. “Il mio è un progetto professionale e di vita, iniziato molto tempo fa. Fin da bambina i miei genitori mi hanno portato in vacanza a Rimini, Riccione e Napoli. Mia madre, Mauricette, adora l’Italia e alle medie non ci ho pensato due volte a scegliere l’italiano come seconda lingua”. Per questo si laurea in Letteratura e civiltà italiana e il primo anno di Master in Mediazione e comunicazione culturale lo passa in gran parte a Genova, in Erasmus. “Sono stata benissimo. È una città di mare come la mia, mi sono sentita a casa”.

Justine allo stadio Olimpico durante una partita della Roma con i genitori e il fidanzato

Il destino la porta a Roma: prima uno stage in una casa editrice locale, La Gremese, poi vari lavoretti per guadagnarsi da vivere: lezioni private di francese, consulenza alle matricole universitarie con la startup Tutored e, da due anni, un posto come guida turistica con la società City Wonders. “Mi è sempre piaciuta la storia dell’arte e Roma è unica. Non mi stanca mai: quando passeggio alzo lo sguardo per godermi le sue bellezze. E se vedo gente che non rispetta il patrimonio artistico, mi arrabbio. Non sopporto la maleducazione”. Nella Capitale Justine ha trovato anche l’amore. “Ho conosciuto Emiliano tre anni fa. Sono restata anche per lui. È tifosissimo della Roma: andiamo spesso all’Olimpico a vedere le partite. Mi sento romanista a tutti gli effetti”.

Il sole di Roma e la cucina italiana l’hanno conquistata. “Non tornerei mai in Normandia, anche perché il turismo lì non è sviluppato. Certo, a volte mi mancano le spiagge di casa, i chilometri di sabbia, la tranquillità, il pesce fresco. Però il mio legame con il vostro Paese è troppo forte, il mio posto è qui”. Il passaporto è francese, testa e cuore appartengono all’Italia.

FEDERICO PARODI

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