“Le guerre non si fanno solo con le armi e con le bombe, ma anche con la propaganda. E qui inizia tutta un’altra battaglia”. Gian Giacomo Migone, storico ed ex parlamentare, ha introdotto così l’incontro “L’informazione in tempo di guerra”, che venerdì 20, al Salone Internazionale del Libro di Torino ha visto un confronto tra alcuni protagonisti del giornalismo italiano. Per Migone, infatti, “è un momento difficile per chi non si schiera con una delle due parti in causa ma sceglie di stare dalle parte dalle vittime e chiede solo la cessazione della guerra, rompendo così lo schema bipolare”. Esattamente in questo, secondo Migone, consiste la missione del giornalista: raccontare la vicenda nella sua interezza, evitando di cadere nella propaganda e senza rinunciare alla complessità. Lo storico evidenzia anche le forti differenze tra la narrazione del conflitto tra Russia e Ucraina e quello delle altre guerre che stanno insanguinando il mondo: “Vediamo ogni giorno immagini che raccontano di sofferenze e atrocità, ma queste sofferenze si verificano solo in Ucraina? Non sappiamo praticamente nulla di quanto accade in Yemen, in Libia, in Siria e fino all’altro giorno in Afghanistan. Non è così che si fa corretta informazione”.
Marc Innaro, corrispondente Rai da Mosca, ha sottolineato l’importanza di mantenere una presenza giornalistica per raccontare le vicende nel modo più completo possibile: “Riferire i fatti per come sono è fondamentale e occorre mettere in fila i tasselli di un mosaico. Volendo utilizzare un paragone calcistico, non possiamo limitarci a fare la telecronaca di una partita di calcio, ma è necessario contestualizzare, raccontando quali sono le squadre in campo, la posta in palio e le regole del gioco. Se non capiamo come siamo arrivati al conflitto difficilmente riusciremo a capire come uscirne”.
Una storia che si ripete in altre parti del globo: “Quello che vedo oggi tra Russia e Ucraina l’ho visto dieci anni fa in Medio oriente nelle primavere arabe e lo vedo ancora oggi tra israeliani e palestinesi. Per questo motivo è fondamentale mantenere uffici di corrispondenza in luoghi come Mosca, Pechino, Il Cairo, Gerusalemme. Mai come oggi, nell’era dei social media, il ruolo del servizio pubblico è necessario, per raccontare da vicino quello che succede: vista dall’Italia e dal resto dell’Occidente la Russia sembra completamente isolata, ma non è così. Cina e India, i due stati più popolosi al mondo, oltre all’intera Africa e all’America Latina, hanno deciso di non unirsi alle sanzioni occidentali, mantenendo buone relazioni con Mosca. Parliamo di un bacino di 5 miliardi di persone, non raccontarlo vuol dire fare cattiva informazione”. Innaro ha parlato poi dell’importanza di superare le condizioni di precarietà che affliggono molti giornalisti, sottoponendo l’informazione a ricatti e censure da parte del potere.
Un punto su cui concorda senz’altro Daniele Macheda, segretario dell’Usigrai, il sindacato dei giornalisti della tv pubblica. “Bisogna garantire supporto logistico e assicurativo ai corrispondenti di guerra, soprattutto i freelance che lavorano per la Rai. Chiunque lavora in contesti di guerra ha bisogno della formazione necessaria, non può essere mandato allo sbaraglio”. A questo si aggiunge la richiesta di aprire un ufficio di corrispondenza Rai in Sudamerica: “Un continente dimenticato di cui si parla pochissimo, e che invece è fondamentale conoscere per capire le dinamiche globali, anche riguardo questa guerra”.
Secondo Vincenzo Vita, docente di scienze politiche e collaboratore de Il manifesto, “in Italia c’è una dose molto alta di ignoranza sui fatti, siamo in un momento di grande emergenza per l’informazione”. Secondo Vita la tv generalista racconta la guerra più come spettacolarizzazione del dolore e del dramma che come informazione: “Lo vediamo con quello che succede nei talk show. La drammatizzazione è una forma per imporre il consenso, arrivando addirittura ad agitare lo spettro della guerra nucleare. Intanto l’Italia è scesa al 58esimo posto nell’indice libertà di stampa, tra giornalisti minacciati e querele temerarie. Serve un cambiamento di rotta, ma la politica ha altre priorità”.