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Quattro mesi di Covid19: cosa dobbiamo aspettarci nei prossimi quattro?

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Per alcuni “andrà tutto bene”, per altri “niente sarà come prima”. Da quando il Covid19 è entrato prepotentemente nelle nostre vite, le domande sul futuro si sono fatte più angosciose, le risposte incerte e titubanti. Tutti stiamo affrontando la paura che le cose cambino per sempre, che la normalità non stia affatto per tornare e che dovremo convivere con il virus ancora a lungo.
Gli allentamenti delle restrizioni delle ultime settimane hanno restituito agli italiani almeno una parte della loro quotidianità, ma nell’aria aleggia ancora la più grande delle angosce: e se in autunno ricominciasse tutto da capo? E se dovessimo ritornare nel più rigido lockdown proprio ora che ci stiamo riabituando a tutto ciò che quattro mesi fa sembrava così scontato?
Il rischio, va detto subito, c’è. Ma che tipo di impatto avrà sulle nostre vite, dipenderà da come il sistema sanitario sarà in grado di affrontare un’eventuale seconda ondata.
Secondo il virologo Giovanni Di Perri, primario di Malattie infettive dell’ospedale Amedeo di Savoia di Torino, per capire che cosa ci aspetta dai prossimi mesi, dobbiamo guardare a chi ci è già passato: «abbiamo osservato che c’è una tendenza nel tempo a mantenere numeri bassi, ma ad avere periodiche riacutizzazioni sotto forma di focolai. È successo in Corea del Sud, a Singapore, ad Hong Kong e in parte anche nell’Hubei in Cina», spiega Di Perri. «Luoghi in cui, tuttavia, è operante e collaudata una strategia di aggressione delle nuove infezioni che da noi è iniziata da poco e che rimane quindi un’incognita. Bisogna vedere, anche se siamo ottimisti, come andrà da noi la strategia del contact tracing».
Per estinguere i focolai, infatti, è necessario testare tutti i soggetti a rischio. Così, partendo da un singolo caso positivo, si possono rintracciare tutti i contatti che la persona ha avuto nelle settimane precedenti, sottoporre a loro volta tutti al tampone e, in caso di altri risultati positivi, procedere a rintracciare anche i contatti di questi ultimi. E così via fino a quando tutti i tamponi effettuati risulteranno negativi. Questa procedura, come racconta Giovanni Di Perri, è già attiva sul territorio piemontese, e sembra iniziare a dare i suoi frutti.
Il tracciamento dei contagiati, però, non è l’unica cosa che è mancata nei mesi di emergenza passati, ed è fondamentale prendere coscienza degli errori commessi, per non ripeterli più. Secondo il Dr. Roberto Venesia, segretario regionale della Federazione Italiana Medici di Medicina Generale (Fimmg) del Piemonte, è mancata la consapevolezza. «L’errore iniziale è stato pensare che si risolvesse tutto negli ospedali, ma non esiste un’epidemia che si svolge negli ospedali e un’altra che si svolge nei territori. Per troppo tempo non è stata detta una parola sulla medicina territoriale. Noi medici di base ci siamo dovuti attrezzare, ci siamo inventati il triage e le buone pratiche e ci siamo procurati i dpi che non c’erano».
In effetti, in Italia, sono morti 170 medici. Un numero troppo grande per essere una pura coincidenza. Molti erano medici di famiglia, che hanno continuato a fare il loro lavoro senza le adeguate protezioni e senza disposizioni tempestive. Secondo il Dr. Venesia, se il sistema sanitario territoriale fosse stato maggiormente potenziato negli anni, con investimenti e riforme ad hoc, forse le cose sarebbero andate diversamente. Oggi, però, qualche strumento in più c’è. Dal 13 maggio è stato firmato un accordo tra la Regione Piemonte e la medicina territoriale per il monitoraggio dei contagi, basato sul modello del “medico sentinella”, in grado di valutare clinicamente i nuovi casi possibili di coronavirus e disporre l’isolamento del paziente e dei suoi contatti prima di richiedere e ottenere il tampone. In questo modo, il medico di base assume un ruolo strategico nell’individuazione e nel trattamento di nuovi focolai.
Quest’estate, comunque, non dovremo abbassare la guardia. Neanche al mare sotto l’ombrellone. Se è vero che, per una serie di motivi, il clima estivo sfavorisce la diffusione dei virus respiratori, non si può dire che con il caldo il Covid scomparirà. Ci potranno essere nuovi focolai, e sarà fondamentale riconoscerli presto e intervenire tempestivamente separando le persone e tracciando i contatti, come detto. Una simile possibilità, però, non deve necessariamente bloccare la ripresa della vita. Secondo il professor Di Perri, un modo per evitare il tanto temuto lockdown c’è: «Se dovesse essere identificato un focolaio dentro una scuola, ad esempio, credo si possa procedere a chiudere per 10 giorni quella scuola e non le altre. A questo punto, sarà fondamentale intervenire concentrandosi sull’area geografica o l’esercizio che è stato compromesso. Lasciando aperto tutto il resto», spiega. «Se il modello è più debole, però, queste cose sfuggono. Un’organizzazione efficiente riconosce presto un focolaio nuovo e interviene in maniera aggressiva».
La catena di montaggio necessaria a costruire un sistema sanitario forte e in grado di affrontare il Covid19, dunque, è chiara. Si basa su due principi cardine: individuare e isolare, e trae forza dalla capillarità che solo la medicina generale è in grado di avere sul territorio. È fondamentale non farsi trovare impreparati: «La sorpresa, la sottovalutazione e la non conoscenza della patologia possono giustificare una serie di errori commessi durante la fase uno», conclude il Dr. Venesia, «ma oggi non sarebbe giustificato affrontare una seconda ondata come prima».
Dopo quattro mesi di lotta e convivenza contro il virus, ora ci prepariamo all’estate. Ci sposteremo meno e, forse, sceglieremo mete diverse per i nostri viaggi, ma come affronteremo i prossimi mesi sarà fondamentale per il risultato finale di questa battaglia.

MARTINA STEFANONI