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Quattro anni fa l’inizio della Brexit: cosa è cambiato e cosa cambierà

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Era il 29 marzo del 2017 quando l’allora Primo Ministro britannico Theresa May attivava l’articolo 50 del Trattato sull’Unione Europea, il primo passaggio formale per l’uscita del Regno Unito dall’Ue. A quattro anni esatti da quella data, è possibile fare un primo bilancio sugli effetti che la Brexit ha avuto finora, e su quelli che avrà negli anni a venire.

Breve storia della Brexit

Il percorso della Brexit è stato piuttosto travagliato: dopo il referendum del 23 giugno 2016 che ha visto prevalere i favorevoli all’uscita, il premier conservatore David Cameron, forte sostenitore della permanenza nell’Ue, si è dimesso. Gli succede la sua compagna di partito Theresa May, che ha promesso un’uscita in tempi brevi, con un accordo con Bruxelles che avrebbe permesso alla Gran Bretagna di rimanere “strong and stable”.

Non è andata proprio come la May si aspettava: dopo la ratifica dell’articolo 50 il 29 marzo, ha indetto elezioni anticipate allo scopo di allargare la maggioranza in favore dell’accordo, ma queste si sono rivelate un boomerang; il Labour di Jeremy Corbyn guadagna 30 seggi e costringe i tories ad allearsi con i nord-irlandesi del Dup, non avendo più la maggioranza assoluta.

Approvare un accordo di uscita con una maggioranza così risicata è un’impresa ardua, e infatti fallisce. Per ben tre volte il brexit deal proposto dal governo May viene bocciato dal Parlamento, con una fronda nel partito guidata dall’ex sindaco di Londra Boris Johnson (tra i principali artefici della vittoria del leave al referendum) che accusa il Primo Ministro di volere una “Brexit only in the name”, con Londra ancora fortemente legata a Bruxelles.

Le elezioni europee del maggio 2019 sono il punto di non ritorno: il Regno Unito non avrebbe dovuto nemmeno parteciparvi perché già fuori dall’Unione, ma la May ha chiesto per due volte un’estensione del periodo di transizione (che sarebbe dovuto scadere il 31 gennaio 2019) per approvare l’accordo ed evitare il no deal, un’uscita non concordata con Bruxelles che porterebbe conseguenze imprevedibili. Ma nemmeno lo spettro del no deal convince i conservatori ribelli, il Regno Unito partecipa alle europee e a trionfare è il Brexit Party di Nigel Farage, che vuole l’uscita del Regno Unito a tutti i costi, anche quello di un mancato accordo con Bruxelles.

Alla May non resta altra scelta che dimettersi, e a prendere il suo posto è il suo “rivale” Boris Johnson. Johnson appare subito determinato a raggiungere la Brexit, e a differenza della May non esclude la possibilità di un no deal. Anche lui però deve arrendersi alla reticenza del Parlamento e chiede un’ulteriore estensione, per indire nuove elezioni e fare quello che non è riuscito a Theresa May: ottenere una maggioranza ampia per approvare l’accordo. BoJo ci riesce, e alle elezioni del dicembre 2019 al grido di “Get Brexit Done” ottiene una maggioranza schiacciante: con 365 seggi su 650 l’accordo sulla Brexit riesce finalmente a passare e il 31 gennaio gennaio 2020, a quattro anni di distanza dal referendum e tre anni dalla ratifica dell’articolo 50, il Regno Unito lascia ufficialmente l’Unione Europea.

E ora?

Con tutto il mondo travolto dal Covid-19, la crisi economica conseguente impedisce al Regno Unito di sviluppare una propria strategia commerciale, con il sogno Johnsoniano di Global Britain (libera dai vincoli europei, la Gran Bretagna può stipulare accordi commerciali con gli altri paesi) riposto temporaneamente in soffitta. La gestione della pandemia da parte del governo conservatore lascia molto a desiderare, ma per BoJo si presenta subito un’occasione di riscatto: la campagna vaccinale.

Il Regno Unito in autunno deve fronteggiare una seconda ondata di Covid pesantissima (complice anche la diffusione di una nuova variante, detta appunto “variante inglese”) e Boris Johnson capisce che non c’è tempo da perdere: a inizio dicembre l’agenzia britannica del farmaco approva il vaccino Pfizer e dà subito il via alla somministrazione, primo paese al mondo a farlo. L’Ema, l’agenzia europea del farmaco, lo farà quasi un mese dopo, perdendo tempo prezioso nella corsa all’immunità di gregge. Le vaccinazioni corrono spedite e ad oggi, 29 marzo 2021, più di un terzo della popolazione britannica ha ricevuto almeno una dose, contro il 4,5% della media Ue. Ad acuire la differenza sono anche i contratti: Il Regno Unito, come gli Stati Uniti, ha stipulato i contratti con le aziende farmaceutiche già in primavera, assicurandosi una prelazione sulle dosi, mentre l’Ue è arrivata con molti mesi di ritardo, perfezionando l’acquisto dei vaccini solo in autunno inoltrato. Quello sui vaccini può quindi essere considerato il primo successo della Brexit, che faceva il suo primo passo ufficiale il 29 marzo di quattro anni fa.

Il futuro però è tutto da scrivere. Il successo della Brexit dipenderà soprattutto dalle strategie commerciali che il Regno Unito riuscirà a sviluppare negli anni a venire, quando la pandemia sarà definitivamente alle spalle e l’economia globale tornerà a essere fortemente interconnessa come nell’era pre-Covid. L’Unione Europea come risponderà? Con una maggiore integrazione tra gli stati membri o con un progressivo allentamento fino a tornare all’Europa pre-Maastricht, come chiedono i partiti sovranisti? Londra riuscirà ad essere più attrattiva per i capitali esteri, trasformandosi nella Singapore europea? Da queste scelte, di Londra da una parte e di Bruxelles dall’altra, dipenderà l’esito della sfida lanciata dal Regno Unito all’Ue e al mondo. Un suo successo definitivo potrebbe minare alle fondamenta l’attrattività del progetto europeo.

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