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“Ma quale fuga dei cervelli”? Narrazioni controcorrente sugli italiani all’estero

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“Fuga dei cervelli”. È una delle frasi fatte che tutti i giovani d’oggi hanno sentito ripetere continuamente. Dagli organi d’informazione, dal sistema scolastico, spesso anche dalle famiglie. Come un mantra, si trova ovunque: parti per un Erasmus e trovi un lavoro? Fuga dei cervelli. Non trovi lavoro in Italia ma all’estero ti offrono uno stipendio da capogiro? Fuga dei cervelli. Fai ricerca e sogni di andare in quell’Istituto che da bambina guardavi come il punto più alto cui aspirare? Fuga dei cervelli. È diventato così comune sentirne parlare che spesso non si capisce più quale sia il confine. Cosa sia reale e cosa sia, invece, un po’ forzato. Non tutti sono d’accordo con questa visione: molti iniziano a sospettare che non ci sia una vera e propria fuga dei cervelli. Che chi parte, spesso torna. O, quando non torna, trova all’estero lavori sotto-qualificati che non sono all’altezza delle proprie competenze.

I dati: disoccupazione, emigrazione, Neet

I numeri non mentono: gli italiani che se ne vanno sono parecchi. Secondo il rapporto 2017 della Fondazione Migrantes, oltre il 39% degli italiani emigrati nel 2016 rientra nella fascia giovanile, ha cioè tra i 18 e i 34 anni. In totale, sono emigrati 124 mila italiani. Secondo i dati dell’Aire, al primo gennaio 2017 ci sono quasi 5 milioni di italiani residenti all’estero.

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La disoccupazione giovanile è elevata: secondo l’Eurostat, nel 2017, il tasso tra i giovani (18-24 anni) è del 34,7%, in leggero calo rispetto all0anno precedente, quando era al 37,8%. La situazione diventa tragica nel Sud della penisola, dove la disoccupazione sale al 51,8%, se si considerano Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata e Calabria. I Neet (giovani che non studiano né lavorano) sono il 25,7%, la media europea è del 14,3%. Fanno meglio dell’Italia non solo Germania (8,6%) e Francia (15,6%), ma anche, tra le altre, Romania (19,3%), Bulgaria (18,6%), Grecia (21,4%). Sempre secondo l’Eurostat, l’Italia è anche il Paese con più poveri assoluti in Europa. Un quadro non rassicurante.

Uno studio controcorrente

Ma quanto serve la narrazione del “cervello in fuga”? È davvero funzionale a descrivere la situazione? Sono queste le domande che si è posto, tra gli altri Guido Tintori, studioso e docente universitario, con un dottorato in Storia all’Università di Milano e poi un’esperienza al Knowledge Centre on Migration and Demography, Joint Research Centre della Commissione Europea. Nell’affrontare il discorso sull’emigrazione degli italiani all’estero, ha prodotto tra le altre cose la ricerca “Emigration from Italy After the Crisis: The Shortcomings of the Brain Drain Narrative”. Un titolo significativo, la cui traduzione dice molto: “Emigrazione dall’Italia dopo la crisi: i limiti della narrazione della fuga dei cervelli”. Partendo da un approccio storico al tema, Tintori ha sviluppato uno studio con un approccio del tutto innovativo: secondo i suoi studi tra il 1990 e il 2014, con l’unica eccezione del periodo tra il 2002 e il 2004, l’emigrazione degli italiani all’estero è aumentata e con essa, di pari passo, è aumentata la sua narrazione: l’idea degli italiani come popolo di migranti, non è mai cessata e, anzi, si è acuita. La tendenza a parlare di “fuga dei cervelli”, di “emorragia”, di perdita delle “migliori menti” italiane in favore di altri Paesi, europei e non, non è cessata. Questa della “fuga” è però una narrazione che però non trova riscontro, sempre secondo il docente, nei dati storico-politici e che ha portato a policy non sempre adatte alla situazione. E, anzi, potrebbe aver contribuito anche alla visione dominante degli “stranieri che ci rubano il lavoro”. Governi di destra e di sinistra hanno infatti abbracciato la retorica che vuole portare gli italiani al primo posto, perché trovino un buon lavoro in Italia, per non farli scappare.

Lo studio di Tintori non è l’unico ad aver provato a dare un approccio alternativo al problema. Da anni, per esempio, si parla di “ecologia dei cervelli”. Un termine che indica, laddove ad andarsene sono effettivamente ricercatori e persone con alte qualificazioni, un bilanciamento con gli ingressi. I flussi migratori non possono essere guardati in modo isolato: c’è sempre chi va, c’è sempre chi viene. Un’indagine dell’Istat del 2011 mostra, tra le altre cose, che i “cervelli in fuga” dal nostro Paese sono stati relativamente pochi. Molti di più sono quelli che si sono mossi all’interno della penisola, da Sud a Nord.

Le storie

Dalila Burin ha 30 anni. Elena Messina ne ha 32. Entrambe piemontesi. Le loro storie sono in parte simili, in parte molto diverse e possono essere lette in tanti modi. In entrambi i casi, in alcune fasi della loro vita, sono state considerate “cervelli in fuga”.

Dalila vive in Giappone da qualche mese, dove svolge attività di ricerca avanzata con il padre del “Brain Training” per Nintendo Ds e si occupa di neuroscienze, la sua specializzazione, alla Tohoku University. Laureata in psicologia e dottore di ricerca a Torino, parla quattro lingue e ha fatto diversi periodi di studio all’estero. “Ma non mi è mai piaciuto essere definita come cervello in fuga. Le persone che fuggono dai loro Paesi sono bel altre: io non sono fuggita. Mi si è presentata l’occasione della vita e l’ho colta”. Soprattutto in termini professionali. “Ma non vuol dire scappare dall’Italia, né vuol dire che non tornerò mai. Qui in Giappone vedo tanti italiani che arrivano con il sogno negli occhi e poi accettano lavori non qualificati pur di restare. Io sono fortunata: ma non sono fuggita da niente”.

Anche Elena Messina la pensa un po’ allo stesso modo. I cervelli in fuga ci sono, spiega, ma ci sono anche tante persone che provano ad andare e tornano indietro. E lei è una di queste: “Ho avuto un assegno di ricerca all’Università di Losanna, in Svizzera. Sono stata là un anno ma quando provavo a fare domande per dottorati o altre posizioni continuavo a ricevere risposte negative: ‘Prendiamo cittadini svizzeri’ era quasi sempre la risposta”. Elena ha studiato Antropologia Culturale ed Etnologia a Torino ed era partita anche per trovare modi di fare ricerca alternativi: “Ma se dovevo pagare il dottorato a Losanna, tanto valeva farlo in Italia, dove avevo costruito molti contatti”. Che ha infatti potuto portare a un livello più avanzato: il suo rapporto con l’ospedale delle Molinette, costruito a Torino attraverso un lavoro lungo e duraturo, professionalmente rilevante, ha portato la giovane studiosa a ottenere un lavoro come ricercatrice all’interno dell’azienda ospedaliera. “Non sarebbe mai successo all’estero: sono tornata perché là le occasioni non c’erano”. Insomma, il contrario della narrazione comune.

CAMILLA CUPELLI

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