A Torino, il dibattito sui beni comuni si è riacceso con forza a marzo 2025, quando la giunta comunale ha approvato il rinnovo del patto di collaborazione per l’immobile di corso Regina Margherita 47, per anni sede del centro sociale Askatasuna. Un luogo da tempo simbolo di tensioni politiche e sociali, oggi torna al centro di un progetto di rigenerazione partecipata, attraverso uno strumento che negli ultimi anni ha profondamente ridefinito il rapporto tra cittadinanza e amministrazione: il patto di collaborazione.
Il nuovo accordo, proposto dalla vicesindaca con delega al Patrimonio Michela Favaro e dall’assessore ai Beni Comuni Jacopo Rosatelli, avrà durata quinquennale e coinvolgerà il piano terra dell’edificio e l’area esterna, con l’obiettivo di restituire quegli spazi al quartiere, attraverso attività culturali, sportive e sociali. I cittadini firmatari del patto si sono impegnati alla ristrutturazione e alla gestione dell’immobile, assumendosi anche la responsabilità della manutenzione e della sicurezza. Durante l’orario scolastico, l’area esterna sarà messa a disposizione del vicino nido e delle scuole del territorio, mentre in orari extrascolastici ospiterà attività aperte alle famiglie.
A vigilare sul rispetto del patto, una cabina di regia con rappresentanti del Comune, della Circoscrizione e dei cittadini coinvolti. È l’amministrazione condivisa che prende forma concreta, e si misura – ancora una volta – con i suoi limiti e le sue contraddizioni.
Il patto, infatti, ha subito duri attacchi politici. L’assessore regionale Maurizio Marrone – FdI – ha annunciato un ricorso al Tar contro la delibera, appellandosi alla legge regionale sui beni comuni – ideata dallo stesso Marrone -, che vieta accordi di questo tipo su immobili occupati abusivamente nei cinque anni precedenti. Dello stesso tenore le reazioni di Lega e Forza Italia, che parlano di “legittimazione dell’illegalità”, accusando la giunta Lo Russo di “cedimento politico”.
Il caso Askatasuna, con tutto il carico di controversie che porta con sé, è molto più di una questione locale. Il nuovo patto di collaborazione riaccende il dibattito su cosa siano i beni comuni e su chi abbia davvero titolo per prendersene cura. Se per alcuni si tratta di una pericolosa legittimazione di un’occupazione storica, per altri è l’occasione per restituire a un quartiere uno spazio lasciato al degrado, attraverso un processo di rigenerazione condivisa. Un esperimento che, piaccia o no, si inserisce nel solco di una osservazione più ampia, che in Italia ha radici profonde.
La proposta della commissione Rodotà
C’è stato infatti un momento in cui la riflessione giuridica ha provato a cambiare radicalmente il modo in cui pensiamo la proprietà e l’uso dei beni pubblici. Era il 2007, e la commissione Rodotà – istituita dal ministero della Giustizia – lanciava una proposta innovativa: superare le vecchie categorie dei beni pubblici per introdurre quella di beni comuni. Non solo quindi beni appartenenti allo Stato o ad altri enti, vincolati a una logica patrimoniale o amministrativa, ma risorse che svolgono una funzione essenziale per l’esercizio dei diritti fondamentali e per il pieno sviluppo della persona. Risorse naturali, culturali e immateriali: beni a titolarità diffusa, che meritano una tutela più forte e una gestione condivisa, in nome anche delle generazioni future.
La proposta non arrivò mai all’approvazione parlamentare, ma la sua forza culturale fu tale da innescare un processo che è andato avanti lo stesso, nelle università, nelle piazze, nei quartieri. Dal basso. Cittadini, comitati, associazioni hanno iniziato a riappropriarsi di spazi abbandonati, edifici in disuso e giardini incolti.
Dal 2014 qualcosa è cambiato: il comune di Bologna, insieme all’associazione Labsus, ha approvato il primo regolamento per la cura e la gestione condivisa dei beni comuni urbani. Un modello che ha fatto scuola per oltre 200 comuni italiani che hanno adottato strumenti simili, cercando di colmare il vuoto normativo e rispondere al bisogno sempre più diffuso di partecipazione diretta alla gestione della cosa pubblica.
Il cuore pulsante di questi regolamenti è il patto di collaborazione: un accordo tra cittadini – singoli o riuniti in forme organizzate o informali – e amministrazione pubblica per prendersi cura insieme di un bene comune urbano. L’obiettivo? Valorizzare ciò che altrimenti andrebbe perduto, ma soprattutto rafforzare il legame tra istituzioni e comunità locali.
I beni comuni a Torino
A Torino, nello specifico, la storia dei patti inizia nel 2016 con l’approvazione del relativo Regolamento da parte del Consiglio comunale.
Dopo una prima stagione di normative, nel 2019 il Comune ha adottato un nuovo testo più articolato, che ha segnato un passo avanti importante nella direzione dell’innovazione istituzionale. Tra le novità introdotte, spicca la possibilità di costituire una “Fondazione Beni Comuni”: un soggetto giuridico che può ricevere in usufrutto beni comuni urbani per un periodo limitato, e successivamente acquisirli in via definitiva. Il tutto all’interno di un quadro che garantisca trasparenza, accessibilità, e la tutela dell’interesse generale, anche attraverso servizi gratuiti o a costi calmierati.
Lo stesso regolamento ha voluto rafforzare l’autogoverno delle comunità, riconoscendo che la gestione dei beni comuni non può limitarsi alla mera esecuzione di attività condivise, ma deve poter evolvere verso forme più autonome e continuative. Un modello che affida fiducia ai cittadini, chiedendo in cambio impegno, responsabilità e capacità organizzativa.
In questo quadro si inserisce un’altra innovazione torinese: la consulta permanente dei Beni Comuni – organo indipendente con funzioni consultive, arbitrali e di promozione della cultura dei beni comuni -, attiva dal 2019.
Ad oggi i progetti attivi sono 60.
La mappa mostra come i beni comuni si siano ormai radicati in modo capillare sul territorio torinese. Ogni punto localizza una realtà culturale, sociale o ambientale attiva, nata grazie alla sottoscrizione di un patto di collaborazione. Si nota una forte concentrazione nei quartieri centrali e semicentrali della città, in particolare nelle zone di San Salvario, Vanchiglia, Aurora, Barriera di Milano e Mirafiori. Qui la densità di iniziative è alta, segno di una cittadinanza attiva che ha saputo trasformare spazi pubblici – spesso dimenticati – in luoghi di incontro, cura e creatività.
Le tipologie più rappresentate sono quelle legate al verde urbano – aree verdi e giardini come Orti in piazza e Orto Wow -, seguite dai progetti per il tempo libero e il supporto comunitario – Falklab e CivicoZero. Meno numerosi, ma significativi, anche i beni comuni legati alla formazione come Habitat e BeeOzanam.
La rete delle Portinerie di comunità
Sul territorio si distingue particolarmente l’associazione di promozione sociale Rete italiana di cultura popolare che gestisce le Portineria di Comunità. A descriverne meglio le caratteristiche e le finalità è Camilla Munno, responsabile nazionale della Rete.
Come nasce la Portineria di comunità?
Il nostro progetto è nato nel 2019 grazie a un bando di finanziamento pubblico Pon metro, ma in realtà le radici affondano più lontano. La vocazione dell’ente alla ricercazione e lo studio dei modelli di socialità e dei luoghi ci ha spinto a guardare oltre i confini italiani. Abbiamo visitato città europee grazie al progetto Specially Unknow come Amsterdam e Parigi, per osservare da vicino come altri stessero lavorando sulla rigenerazione degli spazi e delle relazioni e raccogliere buone pratiche. Prima di avviare le Portinerie di comunità, iniziamo con un’indagine territoriale, mappando le persone che vivono, lavorano o frequentano una determinata zona. Le incontriamo e facciamo conversazioni, dialoghi semi strutturati utilizzando la piattaforma di welfare di comunità de Il Portale dei Saperi, che raccoglie le biografie delle persone in formato audio e video, che vengono classificate per parole chiave grazie alla scelta con Tullio De Mauro – primo presidente dell’Associazione – di inserire un dizionario analogico che dialoga con una AI. Oggi in profonda trasformazione e evoluzione. Solitamente partiamo con circa 80-100 conversazioni, dalle quali emergono temi di interesse collettivo. Questi poi diventano la base per sviluppare attività e iniziative co-progettate a partire dai bisogni e desideri raccontati dalle persone stesse. Processo che ha molte applicazioni, tra cui l’accoglienza, il lavoro, il dialogo con i Neet, ora è indispensabile per far nascere e gestire le Portinerie di comunità.
E la prima sede di Porta Palazzo?
Mappato il territorio, dopo diverse ricerche, è stata individuata dal comune di Torino l’ex edicola di piazza della Repubblica che si è rivelata essere una delle poche di proprietà comunale. Grazie al suo inserimento nel patto di collaborazione, ci è stata affidata in gestione. Oggi il patto comprende 5 firmatari.
La Portineria prende ufficialmente forma nel 2020, durante il lockdown, e si è rivelata una vera e propria fortuna in un momento difficile. Le persone avevano un enorme bisogno di supporto, e questo spazio è diventato un punto di riferimento, un luogo di fiducia in un periodo in cui le relazioni sociali erano molto limitate. Con un permesso speciale della protezione civile, abbiamo potuto entrare nelle case per consegnare medicine, fare piccole commissioni, portare la spesa, mascherine e fare attività di supporto ai senza fissa dimora.
Quindi di che servizi si occupa nello specifico?
La Portineria è un luogo culturale e sociale che accoglie gratuitamente tutti, senza barriere. In particolare, quella di Porta Palazzo, grazie alla sua posizione, è facilmente accessibile e si rivolge a chi, spesso, non frequenta uffici pubblici o enti istituzionali. È uno spazio inclusivo che svolge un lavoro di aggancio sociale, con attività culturali pensate insieme alle persone del quartiere, come cinema, teatro e musica. Oltre a queste, offre anche servizi di prossimità, come la cura delle piante, il supporto tecnologico, la scrittura di curricula e altre piccole necessità quotidiane. A queste si aggiunge l’iniziativa di bike sharing di Portineria, nata dalle donazioni degli abitanti, ora in fase di trasformazione in collaborazione con Bike Pride. Anche la moneta di prossimità è uno strumento che lega una rete fiduciaria di commercianti del quartieri in cui si trovano le Portinerie di comunità. Tutte attività progettate con la comunità, per rispondere ai reali bisogni del quartiere.
Quali sono gli altri spazi che avete finora attivi?
Quella di Porta Palazzo è stata la prima e ha dato vita al progetto Rete delle Portinerie di comunità, nata nel 2021 grazie anche a un finanziamento regionale, che ha portato alla nascita di quella all’interno della scuola Istituto Lagrange e una in un’ex bocciofila a Borgo San Paolo.
Quella scolastica è molto interessante perchè andiamo nelle classi, dove realizziamo attività di fotografia, teatro, radio e altro. Qui, sia i ragazzi che le famiglie sanno che possiamo essere un punto di riferimento anche per altro. Offriamo supporto lavorando come organizzatori sociali e attivando una rete di collaborazioni con altri soggetti sul territorio, senza sostituirci a loro. Per esempio, se qualcuno ha bisogno di assistenza sul tema della migrazione, lo indirizziamo all’ufficio stranieri o all’associazione specializzata. Il lavoro qui è di legame tra la scuola e il territorio e apertura al quartiere, con l’obiettivo di lavorare alla costruzione di una comunità educante.
Poi è nata la Portineria di Borgo San Paolo, in un’ex bocciofila abbandonata da anni. Ora in fase di ristrutturazione con i fondi del Pnrr, piano You too, ma che aprirà molto presto. Ogni Portineria è diversa, questa per esempio si trova in un borgo composto da molte persone anziane e famiglie giovani. La necessità in questo spazio è di un luogo di incontro e socialità diverso dagli altri quartieri come Porta Palazzo e Aurora, che hanno esigenze legate a situazioni più fragili e marginali. Il focus è su uno spazio dove le persone si possano ritrovare, con attività come il gioco degli scacchi, lo yoga, le attività per bambine e bambini, orti sociali, un piccolo bistrò interno e anche un’aula studio per il campus diffuso. È un mix di generazioni che si incontrano.
Infine, l’anno scorso grazie ad un finanziamento del Pnrr nella strategia per le aree interne, progetto PASSI Montani, con ente attuatore il Ciss 38, ente socio assistenziale del Canavese, è nato il progetto nelle aree interne, che ha portato all’apertura di due nuove Portinerie nelle biblioteche. Ci sono gruppi di uncinetto, origami e informatica per anziani. In paesi più piccoli come Cuorgnè e Pont Canavese, dove i luoghi di ritrovo scarseggiano, la Portineria è diventata un punto di ritrovo molto frequentato e necessario. Inoltre è anche presente una Portineria antenna nella scuola di formazione Ciac a Valperga.
Come fate a gestire tutte le richieste che arrivano?
Di fronte all’enorme domanda proveniente da amministrazioni locali e enti del terzo settore, il Portale dei saperi ci supporta nel dare scientificità alle risposte e renderle collettive, mettendosi a sistema con il territorio. Inoltre insieme al Politecnico di Milano e a un legale, abbiamo sviluppato un contratto di social franchising per replicare in modello in Italia e in Europa. Questo permette ad altri soggetti di apprendere Know-how e come replicare luoghi all’interno della Rete delle Portinerie di comunità, che sono un marchio e modello registrato, che non è solo un simbolo, ma rappresenta il processo e il sistema di welfare di comunità che sta dietro e genera questo grande lavoro. Attualmente stiamo lavorando su questo modello a Palermo e in alcune aree interne del Piemonte.
Quante persone frequentano la Portineria e come scoprono i vostri servizi?
Lo scorso anno, complessivamente, circa seimila persone. Porta Palazzo, in particolare, è un punto di passaggio molto frequentato, con circa 60-70 persone al giorno che chiedono assistenza su una varietà di temi, come la richiesta di permessi di soggiorno, il supporto per la redazione di curriculum, oppure semplici richieste come annaffiare le piante o ritirare pacchi. Ogni giorno, il flusso di richieste è molto variegato, segno della grande accessibilità dello spazio a bassa soglia e gratuito e della diversità dei bisogni nella zona.
Al contrario, altre come quella di Borgo San Paolo, si sono affermate più come centri culturali, dove le persone, spesso in gruppi generazionali misti, si ritrovano per partecipare a attività come il cinema, il teatro o la musica. Un esempio interessante è quello di Pont Canavese o Cuorgnè, dove gruppi di anziane e adolescenti si riuniscono per progetti di uncinetto, origami, lingue creando una connessione intergenerazionale.
Le persone arrivano a questi spazi in vari modi. A Porta Palazzo, grazie alla posizione centrale e alla grande affluenza, il passaparola è uno dei principali canali di diffusione. Inoltre sono ben conosciute nel mondo del terzo settore e diffuse istituzionalmente come best practice e loghi utili dalle amministrazioni locali, dagli enti e aziende con cui collaboriamo. In particolare modo negli aree più periferiche e interne. Inoltre hanno c’è una ottima diffusione sui social media e con le Chiacchiere di Portineria, rivista mensile diffusa in Italia e in Europa, che racconta le novità dalla Rete delle Portinerie di comunità.