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Pil pro capite, il Piemonte “in transizione” cerca una vocazione per ripartire

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Quindici giorni fa la notizia, pubblicata da «Il Sole 24 Ore»: il Piemonte perde terreno e retrocede, con metafora sportiva, in una ideale serie B delle regioni più sviluppate in Europa assieme ad Abruzzo, Umbria e Marche. Il Pil pro capite della regione, infatti, si ferma al 99,7% della media continentale – tre punti percentuali in meno rispetto a setti anni fa – secondo i dati di Eurostat per il triennio 2021-2023. 

Giuseppe Russo, economista e direttore del Centro Einaudi, spiega sinteticamente il dato: “Il tema fondamentale è che il numero di abitanti del Piemonte è rimasto pressoché costante, mentre in termini di crescita gli altri sono cresciuti più di noi”.

L’aggiornamento congiunturale di Banca d’Italia di novembre 2025 parla di una crescita “contenuta e inferiore a quella dell’anno precedente” da imputare, oltre che alla manifattura debole, a un rallentamento del terziario. La congiuntura è rimasta, invece, ancora positiva nel settore delle costruzioni trainato in misura significativa dal Pnrr.

Il ragionamento, avverte Russo, “è complesso, ma va fatto tutto”. Proviamo quindi a districare il bandolo della matassa: l’articolo di Giuseppe Chiellino mostra che il Pil pro capite piemontese cresce, ma meno di quello medio dell’Europa. Ora, dice Russo, “il Pil medio dell’Unione europea non è uguale alla media dei Pil delle regioni: lo sarebbe se le regioni avessero tutte lo stesso peso in termini di popolazione”. Le regioni con un peso maggiore sono normalmente – spiega l’economista – quelle capitali: sia in senso politico, “come l’Île-de-France o il Brandeburgo”, sia in senso economico “come la Lombardia o l’Assia”, molto avanzate nel settore terziario.

Quando queste regioni, che pesano di più, hanno una dinamica migliore e si opera un confronto con la media il loro Pil “salirà rispetto alla media, mentre quello delle regioni non capitali diminuirà”. Proprio per questo, sostiene Russo, il confronto dovrebbe limitarsi alle regioni “di pari rango”: il Piemonte andrebbe così paragonato, per esempio, alla Valle della Loira o alla Catalogna. In quel caso, “vedremmo che più o meno siamo rimasti lì dove eravamo”.

I dati di PilNow, l’indice che si avvale anche dell’Ai messo a punto dal Comitato Torino Finanza, stimano il Pil pro capite piemontese a 38.860 euro, superiore alla media nazionale di 35.800 euro. In linea con le argomentazioni di Russo, la cifra è notevolmente inferiore ai 51.000 euro della Lombardia, per non parlare dei 64.900 euro di Monaco di Baviera, ma paragonabile a quella di regioni europee simili: 38.100 euro a Lione, 39.400 euro a Barcellona. La spiegazione è che, negli ultimi anni, la crescita è stata bassa e ha interessato prevalentemente il settore terziario, “che si concentra nelle regioni capitali, sia economiche sia politiche”. 

I limiti alla crescita

Uno dei limiti alla crescita della regione è il grande peso specifico rivestito, nel settore manifatturiero, dall’automotive: “Il numero delle immatricolazioni europee – dice Russo – è in crisi da tempo, poi sono arrivate la pandemia, l’elettrificazione, il green deal. Oltre a questo, è emersa anche la concorrenza cinese e, se posso permettermi, anche il fatto che tra tutte le case costruttrici europee Stellantis non è certo quella più in forma”.

L’aggiornamento congiunturale di Banca d’Italia mostra infatti di un settore in cui la produzione in regione e le vendite all’estero “sono ulteriormente calate nel confronto con il primo semestre dell’anno precedente”. Lo stesso rapporto, riportando i dati dell’Associazione nazionale filiera industria automobilistica (Anfia), parla di un calo di immatricolazioni da parte dei privati dell’11,7% nei primi sei mesi e altrettanto nel terzo trimestre. La seconda questione cruciale è, secondo Russo, che la manifattura piemontese è “estremamente esposta verso il mercato tedesco, ma la Germania è appena uscita da una recessione di due-tre anni e attualmente cresce molto poco”.

Il rapporto di Banca d’Italia, rispetto ai primi sei mesi del 2025, segnala un calo delle esportazioni del 2,5 per cento in valore nominale e del 4,3 per cento in termini reali rispetto allo stesso periodo del 2024. Un andamento peggiore non solo della media del Nord Ovest, ma addirittura nazionale. Il calo, si legge nel rapporto, sarebbe imputabile in prima istanza al calo delle vendite di auto e di macchinari, ma sono calate anche le esportazioni di gomma, plastica, tessili e bevande. In flessione è soprattutto l’export verso Usa, Regno Unito e Cina, mentre le vendite nell’Ue hanno ristagnato: se si è segnalato un aumento in Spagna – il cui Pil, per inciso, dal 2023 è cresciuto del 3 per cento –, in Francia e Germania la domanda è ulteriormente diminuita.

Ulteriore difficoltà che si frappone a una maggiore crescita è rappresentata dallo scarso trasferimento dei risultati della ricerca scientifica e tecnologica alla produzione: un meccanismo ben più oliato in altre zone del mondo. “Esiste una frontiera per cui la ricerca diventa brevetto, viene utilizzata e diventa economia. Da noi, però, tutti i sistemi di trasferimento tecnologico – come incubatori, acceleratori – sono un’esperienza recente e in fase di collaudo. Quindi anche se spesso ci vantiamo di avere sul territorio delle eccellenze, lo sono se confrontate al passato, ma non sono comparabili a ciò che esiste in Francia o in Germania, per non parlare degli Stati Uniti” commenta Russo. 

Gli investimenti per l’innovazione tecnologica, in Piemonte, negli ultimi anni sono aumentati solo nel 31,9 per cento dei casi, mentre nel 4,7 per cento sono diminuiti e nel 18,3 per cento non sono nemmeno stati fatti. È quanto emerge dall’ottavo Osservatorio micro e piccole imprese di Cna Piemonte, curato da Daniele Marini e presentato il 17 novembre a Torino.

Nella maggior parte dei casi chi non investe è frenato dal costo troppo elevato (68,3%) oppure perché l’innovazione non è percepita come un bisogno (53,9%). “Gli investimenti in digitalizzazione fanno difficoltà a essere introdotti perché la piccola impresa affronta praticamente gli stessi costi di un’impresa media, ma la distribuzione sui diversi volumi produttivi fa sì che sia più conveniente ritardare l’investimento stesso” spiega Russo.

L’economista aggiunge un elemento significativo: la dimensione delle imprese – non solo in Piemonte, ma in tutta Italia – è più ridotta rispetto al resto d’Europa. Ecco allora che si possono collegare i punti dell’analisi: l’innovazione, quando dalla ricerca passa alla produzione, crea valore aggiunto ma ha un costo significativo. La spesa è più sostenibile per aziende di dimensioni medie o grandi, che sono capaci di ammortizzare meglio, mentre il tessuto imprenditoriale piemontese è costellato di piccole e microimprese per le quali l’innovazione è un lusso fuori budget.

 

La questione demografica

Secondo Russo, il nodo demografico al momento non ha un impatto economico diretto: “L’impatto oggi sul Pil congiunturale è basso se non zero – sostiene lo studioso –, il vero tema è che il gatto si sta mordendo la coda. Siccome non c’è crescita sufficiente, il Piemonte non riesce ad assorbire tutti i giovani occupabili che escono dalla sua formazione terziaria”. L’economista aggiunge: la relazione pericolosa è quella che dall’economia va alla demografia: “Se l’economia investisse di più e avesse una crescita migliore ci sarebbero più possibilità di occupazione e, di conseguenza, una migliore natalità”. E prosegue: al momento non c’è una carenza di occupazione, bensì un problema di mismatch, cioè di imprese che ricercano competenze che non trovano. La questione, spiega, è la rincorsa nel sistema formativo per realizzare la “formazione permanente”. 

Potenziali driver di crescita

In ogni caso, la situazione demografica stagnante limita l’afflusso di capitali, soprattutto stranieri: “Gli investimenti sono mossi da tre motivazioni, la prima delle quali è il mercato interno in crescita. Chi cerca un mercato interno in crescita, il più delle volte, non si dirige verso una regione con una demografia anziana e un’economia, per così dire, matura”. Per aggirare la questione, propone Russo, bisogna puntare su una seconda categoria di investimenti, “quelli che si vanno a insediare laddove è più semplice, economico e vantaggioso fare degli oggetti di livello tecnologico alto”.

Il Piemonte dovrebbe, in sostanza, puntare sull’attrattiva che gli deriva dall’essere un territorio competitivo in termini di costi e di qualità delle risorse: “Io punterei su questo, più che sulle teste dei consumatori che poi sono teste ormai in larga parte o pelate o bianche” chiosa l’economista. Dello stesso avviso è anche il Ceo di Chora e Will Media, Riccardo Haupt che – a margine della terza edizione del Solution partner day organizzato da Fs1 presso La Centrale Nuvola Lavazza – aveva commentato: “Sicuramente una crisi c’è, ma c’è anche chi dice che la cosa più grave da fare nella vita è sprecare una crisi. Credo che molti in Piemonte, a Torino soprattutto, si siano posti questa domanda e stiano cercando di trasformare questa crisi in opportunità. Le Ogr, a esempio, sono un incubatore di innovazione, test e talenti incredibili. I costi bassi di una città come Torino, in questo momento, sono una grandissima risorsa per attirare talento. Anche la logistica internazionale, secondo me, rende la città una possibile candidata a diventare un hub molto interessante di innovazione”. 

La presenza di due università a Torino, l’Università degli Studi e il Politecnico, oltre all’Università del Piemonte orientale e l’Università di scienze gastronomiche di Pollenzo può essere un driver di crescita per due ragioni. “In primo luogo – argomenta Russo – le Università sono ormai un settore produttivo: forniscono infatti un servizio di istruzione terziaria e di ricerca non solo per i residenti, ma anche per i tanti non residenti che sono essi stessi un motore economico” argomenta l’economista. La seconda caratteristica delle Università che può stimolare la crescita è “la possibilità di alimentare il sistema dell’innovazione, di cui dicevamo prima, che deve poi dare una spinta all’economia, allo sviluppo”. 

Dario Gallina, presidente della Camera di commercio di Torino, aveva parlato della necessità, per il capoluogo di regione, di puntare di più e meglio sul turismo. “Ci vuole più pianificazione: non basta ospitare eventi per creare filiere, quindi imprese e occupazione. Insomma, dobbiamo crederci di più”, ha detto al Corriere della Sera. La ricetta, secondo Gallina, è il gioco di squadra per rafforzare l’offerta. Anche perché il turismo, – come evidenzia il rapporto di Banca d’Italia – è l’unico comparto del settore terziario, insieme a quello hi-tech, a non essersi indebolito.

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