Le ultime sei le hanno messe giovedì 23 gennaio 2025. E i sei nomi che sono incisi sopra – perché sono i nomi che dobbiamo ricordare – sono quelli di Cesare Levi, Mauro Finiguerra, Arturo Levi, Cesarina Levi, Luigi Ottino e Giovanni Abati. Le pietre d’inciampo, a Torino, oggi sono 159 e anche se con un ritmo più lento per rispettare i tempi di una realizzazione artistica che in Germania, dove sono nate, non può diventare e non vuole diventare industriale, continueranno a crescere.
In fondo, gli ebrei torinesi deportati nei campi di sterminio furono 479, almeno secondo la lapide che ne riporta i nomi al cimitero generale: solo 30 di loro sopravvissero. Ma collocarne i nomi lungo il tracciato delle vie torinesi, davanti alle loro case, significa offrire alla loro memoria una possibilità che nessuna lapide poteva garantire: un inciampo, un piccolo pezzo di selciato che si fa dorato e costringe il passante a leggere, capire e pensare. Purché abbia voglia e coscienza per farlo.
Giovedì, a Torino, nelle sei tappe della posa delle pietre d’inciampo sei diverse scuole e classi hanno ricostruito la storia di cinque uomini e una donna. In via Verdi 10, la memoria di Luigi Ottino era affidata a una classe della scuola media Modigliani, dell’Istituto comprensivo Ezio Bosso, che partecipa da diversi anni. Per Chiara Freda, insegnante di lettere, è stata una prima volta. Preziosa, spiega: “A scuola riusciamo poco, per ragioni di tempo, a fare un buon lavoro sulle fonti e lavorare sulla pietra d’inciampo ha invece consentito ai ragazzi di toccare con mano, di ricostruire loro le vicende. E poi c’è l’opportunità di avvicinare questi temi di cui hanno spesso sentito parlare, ma in modo lontano: così invece diamo concretezza”. Giada, alunna della classe III, è d’accordo: “È stato molto utile perché ci ha permesso di scoprire fatti che non conoscevamo di questa orribile vicenda”, dice. E la sua compagna Sofia aggiunge: “Sono queste le storie che ci aiutano a capire meglio passato e anche il futuro”.
Paola Ottino, la nipote di Luigi Ottino, presente con il fratello per ricordare uno zio mai conosciuto e la ferita dolorosa sopportata dal padre per tanti anni, si commuove: “È molto emozionante, dopo tanti anni. Non se ne parlava mai, in famiglia di questa storia: mai mio papà, poco mia nonna. Ora è come se fosse tornato dove era nato”.
A dieci anni dal suo avvio a Torino, il progetto delle pietre d’inciampo continua e continua a funzionare, come conferma Andrea Ripetta, responsabile dei servizi educativi del Museo Diffuso della Resistenza, della Deportazione, della Guerra, dei Diritti e della Libertà e dei servizi educativi della Fondazione Polo del ‘900: “È iniziato nel 2015, in realtà con un seminario nel 2014 al Goethe Institut, che ha lanciato anche qui da noi un progetto nato a Colonia a metà degli anni ’90. Il Museo con l’Aned, la Comunità ebraica di Torino, il Goethe Institut, con il supporto della Città lo portano avanti da allora”.
La campagna di comunicazione portò alle prime richieste e nel gennaio del 2015 le prime pietre furono collocate. “Da allora – prosegue Ripetta – le richieste, sono continuate, anzi sono cresciute, creando un flusso continuo di ricostruzione dei percorsi di vita che in alcuni casi erano poco o per nulla noti”.
Sessanta richieste in avvio, poi le domande si sono stabilizzate intorno alla decina ogni anno anche per le limitate possibilità dell’officina di Gunter Demnig, l’artista che inventò le Stolpersteine a Colonia nel 1992. Ma i numeri più contenuti rispetto ai primi tempi, sottolinea Ripetta, rappresentano anche una opportunità per seguire meglio la cura di ogni singola storia da parte del Museo: “Noi riusciamo a coinvolgere un numero limitato di tutor, grazie al sostegno degli enti finanziatori, per un progetto didattico che coinvolge ogni anno circa dieci scuole, tra primarie e secondarie di primo e secondo grado: ogni percorso prevede sei appuntamenti, quindi già solo con dieci classi sono 60 appuntamenti da gestire”.
Come è giusto, ogni classe è un caso a sé. E, nel tempo, ci sono anche dei cambiamenti, spiega Ripetta: “Magari arrivi in classi dove hanno già visto delle pietre inciampo e alcuni bambini sono molto interessati, perché se ne è parlato in famiglia o hanno visto dei film sulla deportazione, ma ci sono anche situazioni diverse: quest’anno in una classe di Barriera di Milano quasi tutti gli studenti erano italiani di seconda generazione, con radici culturali diverse e senza memorie familiari. E qui il lavoro da fare è differente. Conta molto l’approccio dell’insegnante. Negli ultimi anni notiamo anche una maggiore ricchezza e creatività negli strumenti per ricostruire le singole vicende: se un tempo si puntava su semplici presentazioni, oggi alcune classi utilizzano tecniche più creative, come graphic novel, podcast o video, fatti anche molto bene…”.
L’aspetto del confronto con la fonte di primo grado è un altro passaggio fondamentale. Grazie al laboratorio di ricerca storica e all’Istoreto (l’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea ‘Giorgio Agosti’) è proprio sui documenti che i ragazzi si trovano a lavorare per scrivere la biografia. “Ricordo una classe – dice ancora Ripetta – con cui facemmo una piccola ricerca trovando dei documenti sul caso che dovevamo ricostruire su alcuni microfilm: fu un momento emozionante e tanti di loro, nonostante fossero di un istituto professionale, espressero il desiderio di fare gli storici. Che questo sia successo poi davvero non importa, mentre di sicuro è stata un’occasione importante per allargare gli orizzonti”.
Infine il confronto con i parenti, gli eredi, quando ci sono: “È un altro momento cruciale per capire che dietro a questi numeri spaventosi c’erano persone e dolore che resta e attraversa le generazioni”. Utile anche a superare il rischio di rigurgiti di antisemitismo perché impone la vicinanza di chi ricostruisce a quanto è avvenuto in Italia: “Non abbiamo, per fortuna, visto episodi di antisemitismo nelle scuole con cui abbiamo lavorato, anche di recente. Magari ci sono altri segnali preoccupanti, come quando troviamo una svastica disegnata davanti al Museo o ci sono lapidi dei partigiani a cui viene dato fuoco. Ma nelle scuole, per fortuna, niente di simile”.
La speranza è che continuino ad arrivare richieste e le scuole continuino a partecipare. Perché le pietre d’inciampo continuino a interrogare chi le calpesta, conclude Ripetta: “È un’opera d’arte pubblica che ti fa pensare, è per strada e, come dice Gunter Demnig, coinvolge tutti, anche chi non conosce, non sa”.