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Perché lo schwa serve davvero a includere tuttə

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Tuttə pensiamo di sapere alla perfezione la lingua italiana. Fino al momento in cui quest’ultima cambia, muta, si trasforma sotto i nostri occhi. Ne è un esempio lampante una piccola innovazione che si può notare nella prima parola di questo testo. Quella strana “ə” si chiama “schwa” ed è da tempo presente nell’alfabeto fonetico internazionale per identificare una vocale intermedia, il cui suono si pone esattamente a metà strada fra le vocali esistenti. Una caratteristica che rende lo (o la) schwa un perfetto espediente per mettere fine a un’abitudine linguistica che – quasi inconsapevolmente – riproduciamo ogni giorno: la “maschilizzazione” delle parole. “Questa tendenza è così onnipresente che si arriva ad associare il genere maschile persino a una donna che riveste una certa professione o carica per la quale esiste nella grammatica italiana una versione femminile” spiega Manuela Manera, linguista e formatrice.

Essendo una vocale intermedia, lo schwa rappresenta quindi una soluzione a una problematica reale e quotidiana, permettendo l’inclusione linguistica di tutti i generi, in particolare laddove vi siano comunicazioni che si riferiscono a una platea di soggetti misti (uomini, donne, persone transessuali, persone che non si riconoscono in alcun genere, ecc.). “Lo schwa è una tra le tante sperimentazioni linguistiche della lingua italiana che tentano di creare una comunicazione più inclusiva. Non è l’unico modo per raggiungere questo obiettivo e il suo utilizzo non è di certo un obbligo” spiega la dottoressa Manera. Nonostante ciò, il dibattito sull’utilizzo dello schwa è stato imbevuto di una retorica di odio e da strategie di contrasto che, nella maggior parte dei casi, sembrano ingiustificate.

“Ciò che mi stupisce è che l’odio e gli atteggiamenti violenti che si sono generati all’interno del dibattito non arrivano solo dai cosiddetti ‘odiatori seriali’ presenti sui social media, ma provengono anche da grandi nomi dell’accademia. Questi ultimi hanno tutto il diritto ad avere una posizione contraria e alcuni di loro riescono ad esporre le proprie idee in modo pacato e soppesato. Mentre altri tradiscono la loro stessa funzione di ricercatori e docenti, abbandonandosi a una retorica aggressiva e poco democratica, che non giova al dibattito” sottolinea la dottoressa Manera. Uno degli esempi più recenti è la petizione promossa da Massimo Arcangeli, linguista e scrittore che ha definito lo schwa “una pericolosa deriva, spacciata per anelito d’inclusività da incompetenti in materia linguistica, che vorrebbe riformare l’italiano”.

“Lo schwa non viene utilizzata solo dai gruppi di attivismo LGBTQ. Al contrario, comincia ad essere adottata in libri, articoli di giornale e atti amministrativi. Questo per qualcuno diventa una sorta di minaccia, che presenta il fenomeno come un attentato alla lingua italiana – continua la dottoressa Manera – A mio avviso questa teoria non ha alcun senso, perché la lingua si autotutela, e solamente le soluzioni linguistiche che funzionano per la comunità finiscono per cambiare le abitudini linguistiche. In questo senso, lo schwa funziona, e per molti ciò rappresenta un attacco al privilegio del genere maschile (tra cui la prima citata maschilizzazione) da respingere a tutti i costi”.

Un’ulteriore argomentazione che spesso viene utilizzata in contrasto allo schwa è la sua scarsa importanza rispetto ad altre presunte azioni prioritarie per raggiungere i diritti di inclusione. “La lingua non è il fine, ma è lo strumento. Comunicare è alla base di ogni battaglia, quindi il modo in cui comunichiamo deve essere coerente agli obiettivi che vogliamo raggiungere. Se il fine è l’inclusione, continuare a usare il ‘maschile universale’ non è di aiuto alla causa. I contenuti sono importanti, ma le parole che si adottano sono allo stesso modo cruciali. Lo possiamo fare con lo schwa o con altri espedienti linguistici, ma ciò che è davvero importante è mettersi nei panni degli altri e cercare di farli sentire a proprio agio. Questo obiettivo si raggiunge anche attraverso il modo in cui comunichiamo” conclude la dottoressa Manera.